Augusto Morello - Pieghevole della mostra personale, Vismara Arte Contemporanea, Milano, 1966
Quante volte, nel ciclo circolare, si ritrovino reticoli diversi, in una luce fredda, colore – non colore (nero e appena un fantasma del nero).
Il senso orario o antiorario (che importa? perché importa?) relativo dei due piani reticolari integrati nella mia visione. Poco o molto interesse abbia il movente meccanico la cui velocità si correli o non al mio tempo percettivo (un po’ troppo? un po’ poco lento?). Sian più trasparenti per me le lame di nero che affondano e rilevano o le normali e sghimbesce tessere di luce.
L’ambiguità dell’ (nell’) automa, l’incastro delle (nelle) situazioni, la precarietà della (nella) scacchiera sulla (nella) quale la mia stessa macchina pensante
– sensibile sia re, cavallo, alfiere, pedone.
La curiosa suggestività del gioco, il limite sempre rinnovato della noia siano poi nella memoria come il disturbo dovuto ad una risposta indefinita ad una domanda ambigua, per via di una ridondanza di stimoli culturali della percezione e percettivi della cultura del mondo in cui vivo.
Grazia Varisco persegue da tempo questa sua interna ambiguità il cui valore lirico, ancora ambiguamente, è trovato nell’immagine e cercato nella macchina.
Arte di progetto e progetto d’arte, in questo ricominciare sempre daccapo non senza ricordare che si è cominciato dal fondo.
Così il metodo stesso del cercare – trovare si testimonia nell’oggetto cercato – trovato, proprio come le strutture funzionali e strutturali della nostra esistenza presentano un continuo pendolare della informazione tra la causa e l’effetto, tra il significante e l’insignificante, tra la banalità e l’originalità.
E queste immagini – macchina sono testimonianza e proposta, fantasmi, cioè, del paradossale sistema di strutture presenti e nascoste, accettate e scardinate nel quale si agita la nostra condizione, la nostra relazione col mondo.
Gillo Dorfles - Catalogo della mostra personale, Galleria Schwarz, Milano, 1969
L’arte cinetica – il cinetismo utilizzato per un fine estetico – si esprime di solito attraverso due eventualità essenziali: la messa in moto di un elemento luminoso
(o illuminato dall’esterno) che, per il suo stesso moto, acquista valori estetici rilevanti; oppure il verificarsi d’una mobilità da parte della percezione visiva dello spettatore in seguito a movimenti eseguiti dallo steso in rapporto ad un determinato oggetto o ad una determinata situazione ambientale.
Le stesse strutture costitutive dell’oggetto possono subire delle variazioni dovute alla dinamizzazione intrinseca dell’oggetto o
a delle caratteristiche percettive degli insiemi che lo costituiscono.
Nel caso di Grazia Varisco, quasi sempre l’interesse dell’opera deriva da modificazioni strutturali nella recezione dell’oggetto in seguito a sue trasposizioni percettive e quasi sempre tali trasformazioni sono ottenute con mezzi semplici, addirittura elementari, ma – ed è qui il fatto significativo dal punto di vista estetico – pregnanti.
Cosa distingue infatti il verificarsi di fenomeni con caratteri estetici come quelli della interferenza e diffrazione luminosa, dall’effetto moiré, del formarsi di coni d’ombra e di luce, da analoghi fenomeni percettivi non provvisti di tale caratteri?
Evidentemente solo il concorrere di fattori preferenziali non prevedibili o parzialmente prevedibili, che dipendono da quel particolarissimo e delicato equilibrio tra momento costruttivo e programmatico e dal suo inserirsi nell’ambiente di cui, solo a posteriori, possiamo ottenere la verifica.
(…) Oggi gli artisti cinetici – e in genere quegli artisti che non s’accontentano di rifare le esperienze ricevute in eredità dalle generazioni passate – scoprono nuovi rapporti tra la nostra percezione e il mondo che ci circonda, tra il nostro modo di essere e il divenire delle cose;
e, tanto più, per quelle “cose” il cui divenire è reso più intenso e drammatico da un’accelerazione meccanica, o da una dinamizzazione posturale.
Grazia Varisco è tra coloro che di questa specialissima facoltà cinestetica è favorevolmente dotata:
lo prova anche l’ultimo suo lavoro realizzato ora in una sala della galleria Schwarz, dove, con un elementare gioco di pareti sghembe, ha saputo creare un misterioso ambiente nel quale lo spazio rimane coartato e dilatato non appena il fascio luminoso venga a illuminare una o l’altra parete nel suo percorso.
Il crearsi, così, di false prospettive, di sfasamenti dimensionali – pari a quelli studiati a suo tempo da Adalbert Ames Jr., nelle sue celebri Distorted Rooms – dimostra una volta ancora, come un’invenzione plastica – o plastico-cinetica – possa, a seconda dei casi, anticipare, identificarsi o impadronirsi d’un’innovazione scientifica, e come il rapporto interrelativo tra fenomeni scientifici e fenomeni estetici sia determinato soltanto dalla scoperta affidata alla sensibilità – al Fingerspitzengefühl – dell’artista autentico.
Guido Ballo - Catalogo della mostra personale, Galleria del Naviglio, Milano, 1972
Le ricerche cinetiche e programmate, sulla linea di un lucido sviluppo sperimentalistico, ormai hanno dato risultati chiari: si è visto che le vie per giungere all’arte possono essere diverse o addirittura opposte.
Dalla poetica di Seurat, che avvia per primo i linguaggi moderni a un teso sperimentalismo mentale e non soltanto sensibile, al più recente superamento delle due dimensioni del quadro per andare verso l’environment o comunque verso la pittura-oggetto, ogni freddezza precostituita scompare quando, sperimentando o ricercando concretamente, la fantasia repressa dal rigore si libera: può raggiungersi così, alla fine, un arricchimento di mezzi e di possibilità espressive, pur non abbandonando mai la lucidità mentale.
Conosco Grazia Varisco da quando frequentava l’Accademia di Brera assieme a Boriani, Colombo, De Vecchi e Anceschi, coi quali costituisce il “Gruppo T” o “Miriorama”: ho potuto quindi seguirne i vari momenti delle sottili ricerche cinetiche.
La severità di un programma, che la fa studiare il problema da vari aspetti, si risolve alla fine, nel suo linguaggio, in fantastica, suggestiva realtà in divenire: ne sono esempi gli Oggetti in cui fili di luce-colore, rotando, si sovrappongono, si spezzano e rinascono con un moto continuo. Coglie dunque, con effetti di provocazione ottica ma anche psichica, il senso di una dinamica esistenziale, dove tutto appare, si annulla e risorge provvisorio: idea del tempo inafferrabile.
Le premesse sono futuriste, ma in uno sviluppo che fa superare il quadro, il dipinto, per l’esaltazione del più puro movimento di luci colorate.
In questa mostra sono esposte opere degli ultimi dieci anni: l’uso di materiali come il mercurio, di dischi con elementi convessi, di vetro industriale stampato che altera la visibilità, di meccanismi elettrici, di luce radente, di acceso cromatismo, con varie accortezze tecniche, permettono a Grazia Varisco di ottenere risultati dove il rigore di un metodo scientifico non annulla ma anzi accentua l’immediatezza della fantasia, della sorpresa estrosa, in un linguaggio che si distingue da altri cinetici per una continua gioiosa vivacità del divenire della vita.
Mario Radice - Personale di una pittrice-scultrice. Grazia Varisco alle Serre Ratti' in “La provincia”, Como, 20 marzo 1975
(…) Grazia Varisco non espone pitture né sculture bensì opere d’arte cinetica e ottico-cinetica. (…) Commentare o descrivere le opere esposte è quasi impossibile.
Quasi tutti i lavori in mostra sono dotati di apparecchiature che mettono gli elementi della composizione in movimento in maniera tale da far variare di forma e di colore ogni immagine luminosa. Qualche opera non ha elementi mobili e, in questo caso, è il fruitore che, muovendosi davanti all’opera stessa, vede variazioni di colore e di forma. Queste descrizioni non chiariscono un bel nulla, occorre vedere.
L’arte cinetica ha lunghi anni di vita (alcuni decenni) ma questa notizia è priva di importanza, è semplicemente un’informazione. Può essere “vera” arte e qualche esempio di arte vera lo troviamo esposto alle Serre Ratti. Il pregio delle opere migliori esposte nell’”incanto” che suscitano nel fruitore che non ha prevenzioni o pregiudizi o fissazioni.
Arte d’avanguardia? Rispondo a questa interrogazione nel modo seguente (anticonformistico): tutte le opere d’arte autentica, ossia quelle che comunicano al prossimo un “bene” sia pure minimo sono di avanguardia a qualunque corrente appartengano.
Il vero critico d’arte, come ho già scritto altre volte, non accetta questa definizione per il semplice motivo che non si usa più distinguere fra il bene ed il non bene e fra quest’ultimo e il male. Ma anche questa usanza passerà perché nulla rimane immobile sulla terra. Si tornerà a fare distinzioni fra bene e male ed a capire che non si deve mai fare del male a “fin di bene”.
Emilio Tadini - Pieghevole delle mostre personali, Studio Casati, Merate (CO); Galleria Milano, Milano, 1976
Grazia Varisco espone due serie di lavori. La prima è basata sulla situazione che si presenta quando in un libro o in una rivista un foglio, mal piegato durante la rilegatura, inserisce la sua irregolarità nella successione delle pagine normali sottraendo, oltre a questo, una parte dello scritto, e spostandola.
La seconda serie di lavori è basata sulla situazione che si presenta quando, togliendo dopo un certo tempo un quadro dalla parete, appare la zona più chiara determinata dalla protezione messa in atto dalla superficie del quadro su quella della parete.
Mi sembra che prima di tutto sia necessario fare una considerazione. Le due serie di lavori hanno un elemento in comune per quanto riguarda l’origine, il punto di partenza. Nell’uno e nell’altro caso, infatti, c’è, all’inizio, l’osservazione di un fenomeno elementare che può darsi nella vita di ogni giorno di chiunque. All’inizio, insomma, c’è una occasione. (…)
E’ come se all’origine ci fossero due brevi lacerazioni nel tessuto di quella che potremmo chiamare la percezione abitudinaria.
Nel primo caso, la partizione regolare dello spazio che fa da supporto normale allo svolgersi di un scritto viene alterata di colpo. (…)
Nel secondo caso, il tempo lascia una traccia in negativo, una impronta in una assenza. La parete è come impressionata dell’energia del tempo: il tempo vi deposita la sua immagine. La parete, solo in quel punto, torna com’era una volta, come se il tempo non fosse passato. La parete diventa uno schermo, sul quale l’occhio vede accadere qualcosa: l’apparire simultaneo di due tempi diversi. (…) L’opera, nella sua trasparenza, funziona dunque da cerniera fra tensioni divergenti, addirittura contrastanti. Ma l’ambiguità che ne risulta ci coinvolge proprio perché non siamo introdotti a risolverla, a eliminarla. I livelli si sono moltiplicati. Ci rendiamo conto della loro tendenza, in concreto, a moltiplicarsi.
Nei limiti di una esperienza tanto comune e tanto semplice, nei limiti di un’operazione compiuta con mezzi così elementari, possiamo osservare in atto qualcosa che ci colpisce e ci convince. Un fatto emozionale si costituisce in struttura formale, una struttura formale mostra di fondarsi sull’indistinto dell’emozione.
Coinvolti ambiguamente fra memoria e progetto, sappiamo, comunque, di essere arrivati a un senso, a un valore.
Carlo Belloli - 'Grazia Varisco e l'astuzia della ragione destrutturale', catalogo della mostra personale, Galleria Arte Struktura, Milano, 1980
(…) l’oggetto stesso diventa un agire, un modo di promuoversi a pensiero. Il grado di informazione estetica di questi ludoplastici ad attrazione-repulsione magnetica, che ripropongono il concetto di movimento senza forze, virtualmente inerziale, risulta proporzionale alla matematicità combinatoria dell’avvenimento cromoformale proposto al recettore.
Ogni evoluzione si riduce, in ultima analisi, a una trasformazione e a uno scambio di energia oppure, più intuitivamente, a una unione e separazione di elementi finiti che, in sé, non dipendono da alcuna evoluzione.
Come l’opera di Grazia Varisco promuoveva rapporti intervisuali, così le più recenti pagine atestuali, epifenomeniche, risolte in susseguenze di piegature e ripiegature manuali o meccaniche, istigano all’incertezza del messaggio visivo offrendo reazioni virtuali agli stimoli ottici, tattili e termici.
Le attuali proposte flessografiche della Varisco sono l’espressione della resistenza opposta dalla natura alla violenza che, per mezzo del principio di casualità, la nostra intelligenza cerca di esercitare su di essa.
Queste pagine videotattili promuovono un principio di instabilità e di incertezza strutturale che permette a Grazia Varisco di inverare il proposito platonico: “…se vi offro delle probabilità non chiedetemi di più…”.
(…) Mentre la piegatura è l’operazione che trasforma i fogli di stampa in quinterni o segnature, l’intervento di Grazia Varisco su immacolati fogli di cartone non svolge funzioni legatorie, ne’ persegue ripiegature a registro per incarti a segnatura di fogli stampati.
Inflettendo superfici di cartoni ciechi, senza parole, segni o numerazioni stampate, Grazia Varisco ne decostruisce la monotonia delle susseguenze piane, anatestuali. L’invenzione è la conclusione di ciò che si è cercato. Esistono le funzioni categoriali del percepire, così la dimensione rettilinea è quella preferita dallo spazio umano.
Grazia Varisco possiede una fantasia sensibile, esatta, senza la quale non è possibile l’ideazione estetica.
Immune dall’arroganza profetica di coloro che detengono l’intuizione dell’avvenire, Grazia Varisco si è collocata nella storia della cultura come rivoluzione permanente.
Carmelo Strano - L'``orecchia`` rivelatrice e il riporto offset in ``Artecultura``, n. 2, Milano, febbraio 1980
Il gioco continua. Il “Rien ne va plus” è fuori posto in questo caso. Si può puntare ancora. Grazia Varisco si diverte più che mai, adesso, con queste sue “extrapagine” (…).
In che consiste la novità delle “extrapagine”? Per fare un esempio, immaginativamente, su un foglio di cartoncino rettangolare-orizzontale si dovrebbero imprimere due “passaggi” di stampa: degli incroci di linee verticali e orizzontali. Accade però (può accadere, e l’artista fa sì che accada) che “inavvertitamente”, “improvvisamente”, “per caso”, sul foglio si formi un’orecchia, una piegatura, proprio al momento in cui sta per imprimersi il secondo passaggio. (…) Lo sprovveduto guarderebbe queste cose come una maniera nuova di fare la “bella pittura”. Io che ad esso sono approdato dopo la visione, meglio la rivisitazione, del back-ground culturale e poetico di Grazia Varisco non ho pensato questo. Voglio dire che non ho trovato salti di interessi, e non li ho trovati, più precisamente, nelle extrapagine rispetto a tutte le passate esperienze ottico-cinetiche. E tuttavia in questi riporti offset, come nelle extrapagine, ho colto, al di là delle proposte formali, delle pieghe psicologiche indicative di un atteggiamento leggermente diverso, mutato, della Varisco.
Alberto Veca - 'Contraffarre', pieghevole della mostra personale, Centro Serre Ratti, Como, 1981
La contraffazione è la replica falsa, ai limiti della fraudolenza: imitare con materiali diversi dall’originale un modello, normalmente di valore morale o economico superiore. Siamo quindi nell’area della simulazione coinvolgente, dell’inganno riuscito: ma la contraffazione è anche il ritratto (counterfeit), la traduzione da un genere all’altro, dal reale alla parola, all’immagine.
Grazia Varisco parte da una situazione nota: l’accorgersi, lo scansare, il vedere attraverso la staccionata provvisoria dei cantieri edili; ne riproduce alcune condizioni reali (la figura dell’angolo evidenziato dalle strisce diagonali colorate, il materiale, in un’opera anche le dimensioni e l’ingombro) e ne trasforma delle altre. Il guardare attraverso la staccionata, quindi il desiderio di superare almeno visivamente l’ostacolo, si traduce nell’autoriflessione perché il mondo illustrato aldilà è costituito da una superficie specchiante che si intravede nella fessura fra asse e asse. Analogamente le tracce delle diverse installazioni costituiscono l’elemento scatenante una composizione di frammenti di figure significative per il colore, l’inclinazione delle strisce colorate, ma anche per il paesaggio, gli oggetti precedentemente celati.
Così lo specchio assume la funzione di somma impossibile ma equivalente alla storia interna e esterna dell’oggetto e del suo uso: una affermazione di immagine operata attraverso la replica – ancora la contraffazione – di una realtà che normalmente ci è preclusa (l’incognita di quanto la staccionata nasconde) ma che è nostra.
E se sommiamo questo riflesso, che cambia al cambiare dell’osservatore, della sua vicinanza o lontananza dalla fonte, al recupero e al riutilizzo – e quindi alla lettura diversa – che noi facciamo dell’oggetto-immagine una volta che esso venga spaesato dal suo contesto e riproposto all’attenzione, una conclusione provvisoria è quella che il lavoro di Varisco costituisce una sorta di viaggio attraverso un intervallo fra la memoria e il possibile, e la mutevolezza dell’approccio diretto con la realtà.
Jean Louis Schefer - 'Où la lumière se plie', pieghevole della mostra personale, Studio Marconi, Milano, 1983
Je crois difficile désigner d’une formule les travaux de Grazia Varisco, de nommer d’un seul mouvement les corps ou structures lumineux (animés seul mouvement tel que leur centre semble sans cesse irradier et diffuser sur l’ensemble de la structure, comme une onde, une espèce de frémissement parcourant et orientant le corps même de ces objets: à strictement parler, rien n’y est moins “structural”), et ces autres “objets” sortis comme par agrandissement d’une série de détails du travail typographique: plis, rabats, inclinaisons de trames; une suite d’accidents qui cessent de perturber des formes pour les ouvrir à un jeu.
Il y a comme une règle dans l’attouchement de la lumière: comment la faire jouer de façon que d’elle à moi, le contact qui s’établit fasse apparaître un objet ou se résolve en un corps d’objet.
La lumière ici indéfiniment, elle inscrit des passages: chacun est un objet; plus exactement, chacun absorbe des quantités, toute ue imagination du détail mobile et instable (l’”elément” du “tableau” est ici élément de dispersion) sur lequel une source se diffuse, est reprise, remonte, tourne; le jeu engagé l’est comme l’idée du prisme tournant qui nous assigne au céntre, au point fixe de l’organisation limineuse: tout y est à la fois clair et sombre; c’est une partie de dames, d’échecs jouée comme par une main lointaine.
Quelque chose est donc ici figé? L’objet, semble-t-il, s’est ajouté à la qualité des phénomènes é c’est sa fragilité, sa ténacité; il est “signé” mais plus qque par un style, plus que par ce qui peut apparaître de préoccupations d’école.
Le style ici, ou bien l’object pris en substance dans une série de délais de perception, de “brèches optiques”, instaure dans les objects cinétiques la réalité d’une relation personnelle à la lumière, à cet événement esthétique. Car en cela se résout, pour moi, cette première série de travaux. Chaque structure (chaque object), chaque organisation cadrée – organisme vivant de sa répétition est ouverte à une série d’événements qui ne définissent pas des structures restreintes mais programment des perturbations, comme si, dans chaque proposition de structure, la lumière tournait autour de l’ombre qui bat en elle.
De façon exemplaire, ce qui apparaît déterminant, singulier dans ces travaux de Grazia Varisco, est aussi ce qui s’y dissimule comme un principe d’ordre: dans ces événements lumineux (l’objet est un filtre ou un mirage; s’il tourne, varie etc. c’est comme un corps relationnel, une durée d’empathie en train de nous montrer ce qui le détruit: la lumière même), c’est une stratégie, non des effets optiques programmés, mais de véritables choix d’objets; ils sont un jeu: ils contennient donc en eux (comme les prismes “contennient” leur lumière (la place de celui avec qui ils jouent. Celui-ci – nous mêmes – n’est pas un spectateur; pris au jeu comme celui qui répondrait, en sa place, de la cause inconnue des petites structures. Saisi de cette dilection d’objets (puisqu’à l’affect, à cette empathie lumineuse, c’est le corps même de l’object qui est ajouté), il est donc soumis par ce jeu, comme s’il en détenait secrétement la cause, à cette déclinaison de lumière.
Sur les différentes périodes de son oeuvre, Grazia Varisco inscrit à mes yeux le fantôme et l’insistance d’un ultime “objet”, l’enregistrement d’un temps absolument mystérieux: il est celui des phénomènes, il est donc reférable à des traces, à des objet: chose. Cependant, par l’effet d’un pliage – qui n’est pas une opération rigide dans le travail de Grazia Varisco: c’est plutôt l’operation d’un charme -, à travers les résultats d’une grande cohérence formelle et esthétique, une douceur fait fléchir et décliner une rigidité de la lumière, anime ses corps d’occasion. La chute même de la lumière dès qu’elle joue avec son ombre, nous prend en elle, sur le battant de son horloge. Un peu comme dans les mythologies, ce qui arrive à cette substance n’est pas une transformation de son corps, c’est qu’elle devient humaine: en elle peut s’incarner et se jouer l’effusion qu’elle figure.
Le temps (à travers la chute des corps lumineux attachés à un centre invisible, qui les perd, les reprend aussitôt, en une sorte d’ironie d’un fortda de la lumière), à travers ce subtil miroir aux alouettes, le temps fonctionne comme un organe. Dans le réseau du jeu optique, graphique, sur cette espèce de page tournée du jour, c’est le mystère d’une image d’un temps individuel, subjectif (il est, encore une fois, ouvert à notre empathie, à une sorte d’affect blanc) à l’ouvre, au prisme, qui travaille à la trame. Que sommes-nous donc en ce jeu où la lumière se plie, hors l’effet de son amabilité?
Guido Ballo - 'Implicazioni' in ``Corriere della Sera``, 20 febbraio 1986
Il rapporto tra arte e scienza, nel mondo di oggi, si risolve spesso in un riferimento più specifico tra arte e tecnologia, e quindi fra arte e civiltà dei consumi.
Le ricerche programmate, con sviluppi anche cinetici, sulla linea di un lucido sperimentalismo, (…) hanno dato ormai altra conferma che le vie per giungere all’arte possono essere diverse o addirittura opposte.
(…) Ciò che può sorprendere qui è il fatto che da una partenza programmata, quindi freddamente mentale, si giunge ad altri intrighi psichici, per lo sviluppo analitico della percezione visiva. Questo dialogo con lo spettatore si svolge sul piano irrazionale della suggestione e diventa quasi ipnotico, con altre inquietudini esistenziali, ma anche con sottile ironia, quasi da nuovi amuleti ammiccanti.
E’ il pregio di questa mostra di Grazia Varisco, rigorosa e ricca di risonanze estetiche e psichiche: con l’apporto della tendenza Optical e di varie analisi della percezione visiva si cattura l’occhio, ma coinvolgendo anche il comportamento dello spettatore, che non può restare inerte.
Dalla schematica programmazione, fredda e calcolata, si giunge così all’emozione di una lucida fantasia in movimento.
Marco Meneguzzo - 'Angolo critico', catalogo della mostra personale, Galleria Sagittaria, Pordenone, 1987
(…) Ogni opera programmata e cinetica, in fondo, potrebbe essere definita musicalmente, come una serie di variazioni non su un tema, ma direttamente sulla scala tonale. Da queste fondate premesse deriverebbe, per la critica e per la pratica, un problema di analisi della consapevolezza e della volontà dell’artista nell’impostare un programma a valenza estetica (…).
Ogni opera, comunque, rimane sul versante della consapevolezza progettuale, della coscienza volitiva…
Certo anche il lavoro di Varisco non vuole sfuggire al concetto di processo, di progetti, di sviluppo, di analisi, come testimoniano non solo i lavori degli anni Sessanta e Settanta, ma anche queste recentissime “Angolazioni”, dove il problema della traslazione, del passaggio tra le due e le tre dimensioni riconduce il discorso – e il vedere – a problemi di codice, di convenzione rappresentativa, in una parola al linguaggio.
Non è cioè difficile, ne’ errato, vedere in questi lavori la meraviglia che si rinnova continuamente in un’artista per questo impercettibile confine tra il segno e il solido. (…) Quale allora l’elemento nuovo, il personaggio sinora invisibile, che entra in scena, in questi tardi anni dell’Ottanta? Ma è la meraviglia.
Quella meraviglia che muove Varisco, e che è l’elemento fondante il codice che poi lei stessa utilizza. Come se chi guarda, stanco di decodificare per trovare elementi ultimi, unità-base, voglia scoprire da dove deriva l’arbitrarietà individuale che fa nascere quell’unità minima linguistica.
E’ uno scavo ulteriore, che non può che considerare a posteriori il linguaggio cresciuto su quello stupore, su quella piccola, singolare, quotidiana ossessione che per Varisco è l’angolo. (…)
Getulio Alviani - 'Grazia Varisco. Opere 1958-1987', catalogo della mostra personale, Galleria Sagittaria, Pordenone, 1987
Nel programma che sempre mi prefiggo quando sono chiamato ad occuparmi di informazione artistica figura solo quel tipo di arte di cui condivido l’ideologia e stimo la qualità.
Questo è avvenuto anche per quanto concerne il mio rapporto di collaborazione con il Centro Iniziative Culturali Pordenone. Credo che un modo di fare arte sia anche quello di presentare i suoi protagonisti e di evidenziare il parallelismo tra etica professionale e di vita, che è quanto mai accentuato nell’arte costruttiva e di ricerca.
In queso centro precedentemente presentai alcune figure significative delle avanguardie storiche, da Sonia Delaunay a Seuphor alle esperienze più recenti, da Camargo a Cruz-Diez. Ma è sopratutto nel progettare l’attività futura che vedo una possibilità di ampliamento del panorama che vorrei emblematico e almeno didatticamente esauriente.
La presenza di Grazia Varisco rientra in questa intenzione.
La traiettoria plastica di Grazia Varisco è da sempre parallela al tempo storico.
La sua esperienza si inserisce in quel recente passato che negli anni ’60 proseguiva la prospettiva di uno sviluppo logico verso il futuro, un “futuro diverso” che era in quegli anni a portata di mano, nell’arte come nella ricerca scientifica, che si è rapidamente ri allontanato, ostacolato da una negativa interpretazione e conseguente reazione alla civiltà tecnologica. Basti pensare al disinteresse che c’è ancora per i fenomeni ottico percettivi (attraverso i quali si forma più del 80% della nostra conoscenza); Essi vengono indagati e manipolati in gran parte per trarre benefici economici lontani da una acutizzazione riflessiva ed evolutiva per una sudditanza alla civiltà consumistica e si sottovaluta l’inquinamento ottico che in misura impressionante sempre maggiormente ci aggredisce.
Nelle opere di Grazia Varisco si avvertono istanze e problemi connessi a fenomeni percettivi ma prevale la sorpresa della ideazione plastica che, sostenuta da un atteggiamento poetico costante raggiunge autentica qualità estetica.
Filiberto Menna - 'Ricerca dell’imprevisto' in “Paese sera”, Roma, 20 luglio 1987
(…) Nel Gruppo T e nell’opera di Grazia Varisco, in particolare, il fattore ludico ha avuto un ruolo particolarmente importante, anche se non esclusivo, avvertendo che l’idea di gioco assume nel lavoro di questi artisti un significato complesso, una connotazione direi filosofica, indicando un’attività libera e spontanea, che ha in se stessa le proprie motivazioni e i propri fini.
Di qui anche l’attenzione che l’artista ha sempre avuto per la componente casuale, aleatoria dell’arte: voglio dire che Grazia Varisco, come del resto i suoi compagni di strada, intendevano impostare la costruzione dell’opera sulla base di una intenzionalità progettuale, ma questa non doveva pretendere di racchiudere in se, nel suo costituirsi a priori, tutte le possibilità esplicative dell’oggetto, bensì comprendere appunto un elemento di aleatorietà che garantisse un aperto campo di possibilità formali.
L’arte più propriamente visuale e cinetica della Varisco nasce all’interno di questa poetica per la quale si è pure parlato, nei primi anni Sessanta, di “arte programmata”, ossia di un’arte capace di operare sulla base di due principi complementari, come quelli della regola e del caso.
La ricerca dell’imprevisto, dello scarto della norma, è al centro dell’opera di Varisco anche negli anni Settanta e nei primi Ottanta: nelle strutture metalliche realizzate a partire da un modulo geometrico di base ciò che conta è proprio la messa in questione delle convenzioni della geometria, che vengono alterate e rese quasi indecifrabili per effetto della semplice operazione del piegare, lungo il perimetro di un quadrilatero, una porzione dei lati. La certezza del piano si perde nella imprevedibilità dei percorsi compiuti dalle linee perimetrali, che si snodano e si piegano creando forme che vivono più del vuoto che del pieno.
Adriano Antolini - 'Scolpite con Grazia. Dal Gruppo T alle ``Disarticolazioni`` ' in ``Corriere della Sera``, 16 febbraio 1992
Chi dubita ancora che l’intelligenza sia uno dei modi attraverso cui si può raggiungere lo stupore, e la semplicità lo sia per raggiungere la grazia, dovrebbe visitare, appunto, quasi per un gioco di parole, questa mostra di Grazia Varisco (…). Proprio la semplicità estrema delle ultime cose dell’artista convince della serietà degli stimoli che mettono in gioco continuamente, la bipolarità fra l’osservazione di fenomeni visivi da una parte e risultati in qualche modo scientifici dall’altra, ottenuti e sperimentati dalla Varisco.
Intanto quello che l’artista espone non sono propriamente ne’ sculture ne’ quadri, benché ne abbiano l’aria, ma interventi sullo spazio, che coinvolgono il modo di essere e di guardare dello spettatore fin dal momento in cui entra nella galleria.
Ad esempio, le Disarticolazioni esposte, sembrano telai o cornici divisi in due, in diagonale. (…) Così impiegate, queste semplici strutture suggeriscono delle curiose deformazioni, elastiche, provocatorie, o addirittura ironiche, della spazio in cui lo spettatore si trova. (…) un invito a giocare con lo spazio, a immaginarselo diverso, più articolato.
Ma viene anche il dubbio che lo spazio in cui viviamo sia effettivamente anche così: uno dei mille spazi possibili che ci circondano, e che noi di solito, per abitudine, semplifichiamo. (…)
Luciano Caramel - 'Grazia nel Paese delle Meraviglie', catalogo della mostra personale, Galleria Milano, Milano, 1992
(…) (Le Disarticolazioni) Sono interventi nello spazio che coinvolgono una pluralità di registri e si risolvono in effetti non solo molteplici, ma di differente sostanza, eppure fusi nell’unità polimorfa e cangiante dell’evento. Elementi oggettuali di diversa dimensione e struttura sono collocati direttamente sul pavimento in posizione inclinata, anche con torsioni, con le parti superiori appoggiate alle pareti.
Si ha così la sensazione di cose “fuori luogo”, come recitano i titoli, che non sono al posto giusto, abbandonate in una condizione di provvisorietà, di attesa, cui contribuiscono la dislocazione diffusa negli ambienti e la conseguente impossibilità di una visione obbligata, con punti di vista fissi, sia pur con le variazioni che necessariamente la tridimensionalità implica.
Chi guarda provoca con il suo spostarsi la modificazione continua del campo visivo, determinando e vivendo una situazione in cui notevole peso ha la stessa virtualità di spazi originata e dalla piegatura degli elementi-struttura e dalle loro proiezioni sui piani, in una realtà tutta topologica che non può prescindere dalla flagranza della fruizione, che non si dà in astratto, fuori del registro della contingenza. Di qui l’impressione di provvisorietà, di instabilità, e anche di casualità che avvolge il visitatore, d’altronde raggiunta sulla base di un progetto definito e teoricamente motivato, con connotati di concretezza di forma e di ingombro spaziale.
Ecco la bipolarità di cui si diceva, ancora indirizzata a definire la precarietà, e qui con diretto sviluppo delle esperienze sugli gnomoni e sulle angolazioni, cui Grazia Varisco s’è applicata negli ultimi anni. In esse – come l’artista medesima nota, con una capacità di precisazione teorica che pure è sintomatica della sua polidimensionalità – “il rigore delle convenzioni della geometria è alterato, reso quasi indecifrabile per effetto della semplice operazione del piegare, lungo il perimetro di un quadrilatero, una porzione dei lati.
Il perimetro si snoda; sotto il nostro sguardo, la geometria da piana diventa tridimensionale, spaziale, in modo intrigante, intricato.
La piega solleva, la forma si alza, anima lo spazio ‘vuoto’, non lo occupa, lo ‘implica’ attraversandolo.
Si produce qualcosa di insospettato, qualcosa che il gioco delle ombre proiettate dilata mutevolmente: l’effetto di sfasamento dello spazio si moltiplica, ‘implica’ lo spettatore nei suoi spostamenti. L’ambiguità che ne deriva prende, ‘intrappola’ lo sguardo, invita, vorrebbe condurre lo spettatore a un abbandono divertito o a un attento controllo visivo nell’uso della struttura”.
“Per me”, conclude la Varisco, “questo lavoro è l’occasione per un’esperienza insolita dello spazio fisico, dello spazio mentale, del suo esistere, del suo possibile dilatarsi, del suo essere disponibile al mio respiro e al mio sguardo, del suo accogliere il mio muovermi.” (…)
Claudio Cerritelli - 'Grazia Varisco. Il divenire del progetto' in ``Titolo``, anno V, n. 15, Perugia, 1994
(…) Grazia Varisco non teme di perdere il controllo visivo di quello che sta succedendo davanti agli occhi, anzi si affida completamente alla dimensione non conosciuta dei segni che appaiono e spariscono sullo schermo della visione, combinandosi e cancellandosi sulla soglia sempre meno programmabile della superficie.
Alla dimensione del provvisorio si lega anche il concetto di “caso”, questa matrice costitutiva delle ricerche dell’avanguardia contemporanea che attacca l’estetica tradizionale liberandosi del condizionamento della logica. Il “caso” entra nella struttura dell’atto creativo, nell’operazione di Grazia Varisco esso diventa un momento interno alla visione progettuale, uno strumento per cogliere aspetti segreti che presiedono l’universo della ragione.
Il “caso” non è solo una porta verso l’inconscio ma una vera chiave di lettura di un ordine a-logico che dialoga strettamente con le voci della ragione visiva. La progettualità dell’opera non può che arricchirsene perché ogni deviazione dalla norma fa parte della razionalità, quest’idea molto più complessa e contraddittoria di quanto non la si reputi, soprattutto nella dialettica tra percezione e immaginazione.
(…) Questo modo di saggiare l’identità dello spazio deriva da una evidente insoddisfazione che l’artista sente nei confronti del linguaggio visivo come fatto abitudinario, come consuetudine che rende sterile la vita delle forme, l’esercizio dell’occhio. Urge l’invenzione di nuove posizioni.
(…) Anche la dimensione impalpabile dell’ombra diventa un preciso strumento di scrittura dello spazio, come evocazione di forme virtuali che nascono dalla piega dei materiali, dai loro angoli, dalla piattezza o dal rigonfiamento della loro realtà apparente.
Tra il 1975 e il 1987 Grazia Varisco cattura nel progetto di una geometri tridimensionale quel vuoto indeterminato che prende corpo nella trappola della parete, tra elementi che vi si appoggiano e altri che fuoriescono, calamitando le energie circostanti. Dall’interno della stanza gli elementi abitano anche l’esterno, in un’idea virtuale della scultura che dilata quanto più e possibile il respiro fisico e mentale dell’ambiente, con grande tensione angolare verso tutte le dimensioni del paesaggio. (…) Questo slancio ad accorpare quanto più ambiente possibile si è sviluppato negli ultimi anni come capacità di abitare lo spazio attraverso sottili divagazioni nel bianco, muovendo l’eterno imbarazzo della percezione tra luci ed ombre, frammenti e dettagli, valori di superficie ed effetti tridimensionali. La funzione spiazzante della diagonale recita sovrana anche in questi “spazi in divenire” dove luce e trasparenza chiedono concentrazione e possesso di tutti gli elementi in gioco, partecipazione emotiva e razionalità.
Solo in presenza di questo doppio piano di ricerca le immagini di Grazia Varisco sanno resistere, dopo oltre trent’anni di vicende pratiche e teoriche, all’usura delle occasioni, delle formule, delle tecniche via via adottate, come un contributo fondamentale all’esplicazione dei problemi della realtà, non solo dell’arte. Non vedo miglior esempio per un progetto dell’arte che aspiri a farsi conoscenza individuale e collettiva, non consumo di massa e negazione dell’individuo.
Monica Gibertini - 'L’immagine allusiva', catalogo della mostra personale, Galleria Melesi, Lecco, 1994
In un’epoca come quella attuale governata da una continua mobilità percettiva, nel trionfo del transitorio, del variabile, talvolta del casuale e fugace, sembra che il lavoro di Grazia Varisco trovi una totale compiutezza di intenti e risultati.(…)
Fin dalle prime opere storiche ottico-cinetiche come la “Tavola magnetica trasparente”, 1960, il “Reticolo frangibile – Quadricromia”, 1965/71 o la “Dilatazione di spazio”, 1973, è chiaro come partendo da elementi strutturali soggetti per loro natura a molteplici prestazioni a livello percettivo, come il vetro industriale o la rete metallica, è l’osservatore con il suo spostamento casuale o con il suo intervento diretto, a modificare la realtà percettiva e talvolta strutturale dell’opera.
Diverso è il caso in cui l’effetto di movimento non è determinato dallo spostamento dell’osservatore e quindi di natura virtuale, bensì è reale. (…)
Francesco Tedeschi - 'Lo spazio ridefinito', catalogo della mostra, Mazzotta, Milano 1998
(…) In questa direzione di installazioni sempre più leggere, fatte di vuoto, vanno anche alcune proposte di Grazia Varisco, che svolge le iniziali attenzioni per l’arte cinetica verso riflessioni sulla costruzione dello spazio, con le opere degli anni Settanta del gruppo definito “Between”, dove recupera le strisce bicrome usate come segnali di pericolo sulle palizzate delle case in costruzione componendone l’ordine per ottenere forme in continua variazione, o nei lavori di valore progressivamente più scultoreo nei quali l’indagine sulla piegatura irregolare di pagine stampate la conduce a intervenire sul tema della superficie che invade lo spazio, per giungere a costruzioni fondate sul principio dell’angolo, con interventi di natura propriamente ambientale, che indicano possibili spoliazioni dello spazio costruito.
(…) Varisco presenta una scultura che approfondisce ulteriormente la sua attenzione per il confronto con uno spazio alterato dalle geometrie tracciate dalle forme scultoree, dal vuoto interno della scultura, dall’ombra proiettata e concretizzata sulla parete.
L’opera realizzata insiste sul tema del cerchio, sospeso in verticale e continuato alla base da un suo ideale interrarsi nel luogo. Il luogo riceve l’opera e ne risulta abitato in modo sensibile, che ingloba l’incontro tra le pareti, portando l’angolo a essere contraddetto da una continuità di dimensioni. (…)
Elena Pontiggia - 'I giochi filosofici di Grazia Varisco' in 'Artiste. Presenze femminili nei movimenti artistici 28/68', catalogo della mostra, Edizioni Viennepierre, Milano 1999
(…) Si entra nello studio di Grazia Varisco e dopo aver ricordato quella stagione iniziale della sua vicenda espressiva, non si può fare a meno di dimenticare tutto quell’armamentario di categorie (spazio-tempo, visione gestaltica, rapporto operatore-fruitore dell’opera, percezioni sub-corticali, fenomeni ottico-percettivi) che i libri hanno registrato.
Non perché quelle espressioni non siano vere, o perché non abbiano fatto parte del dibattito dell’epoca, ma appunto perché erano vere e ne facevano parte. Tutto vero, tutto esatto. Ma, come sempre, l’opera ne sa di più dell’artista e contiene anche altro.
Le opere di Grazia Varisco, ad esempio, fanno pensare prima di tutto a giochi filosofici.
Osserviamo le Tavole magnetiche. Sono tavole su cui sono disposte liberamente alcune tessere, che un’invisibile calamita si incarica di tenere legate alla superficie. Questa apparente libertà, che nasconde una sostanziale mancanza di scelta, non è una metafora della vita?
Queste tavole, su cui si possono spostare bacchettine da shangai, quadratini e nastri di metallo, perfino palline da ping pong, sembrano dei mandala, che riecheggiano le circostanze della nostra esperienza: l’essere calamitati da forze che non conosciamo, l’esitare tra ordine e disordine, l’oscillare tra libero arbitrio e coazione a ripetere, il tener conto delle regole facendo i conti con le eccezioni.
Anche i grandi Schemi luminosi variabili dei primi anni sessanta, azionati da un motore elettrico che provoca variazioni continue dell’immagine di partenza, ha l’aspetto di un enorme caleidoscopio, di un labirinto luminoso.
Ancora un gioco, dunque. E così appaiono i Reticoli frangibili: scatole magiche, Wunderkammer portatili in cui i segni geometrici diventano scintille, frecce, “pesci rossi” matissiani.
Gioco, si intende, non significa passatempo, distrazione. Al contrario. Il bambino non gioca per divertirsi, ma per imparare a vivere. Per questo il gioco imita la vita, forse la spiega. E così fanno i giochi di Grazia Varisco.
Alle categorie cui accennavamo prima, quelle storicamente accertate, bisognerebbe allora aggiungerne altre: sentimento dell’incerto, presentimento dell’ambiguo, messa in dubbio dell’ovvio, constatazione del provvisorio, ansia dell’imprevedibile, leggerezza, stupore.
Tutte queste cose, mi pare, dicono le opere di Varisco quarant’anni dopo la felice stagione di “T”. Sospetto che le dicessero anche allora e che non smetteranno di dirle.
Giovanni Maria Accame - 'L’apertura sull’inatteso' in Giovanni Maria Accame, Grazia Varisco 1958/2000, Maredarte, Bergamo 2001
(…) E’ proprio l’aspetto dell’inatteso che attrae e stimola questa artista, facendo del suo lavoro una sfida a non considerare mai definitiva nessuna situazione, anche la più apparentemente stabile e formalizzata. A questa attitudine verso un’animazione creativa delle cose contribuiscono un insieme di componenti analitiche, intuitive e volutamente casuali. L’immagine, l’oggetto, il fenomeno osservato diviene occasione di un processo ideativo che può ruotare, con una serie di varianti, attorno a quella sollecitazione o, al contrario, farne lo strumento propulsivo per raggiungere una dimensione assolutamente diversa. Una percezione costruttiva che nel corso degli anni diviene sempre più un modo di essere, di rapportarsi con l’ambiente circostante.
(…) I primi Spazi in variazione del 1961, sono costituiti da un contenitore illuminato con luce fissa, spesso blu, dove quinte orizzontali e verticali ruotando con velocità diverse, generano continui mutamenti nei rapporti tra luce e ombra.
(…) Negli Spazi in variazione, come nei successivi Schemi luminosi variabili, la variazione dell’immagine rimane l’aspetto visivamente costante. In questa mutazione, che dà origine all’evento e al suo accadere, si trovano concentrati e strettamente connessi, i molti temi che sono costitutivi di questa tendenza artistica. (…) I fenomeni erano, tra l’altro, sempre fenomeni transitori, suscettibili di modificazioni e legati al loro evolversi nel tempo. In questo senso le opere sono “opere aperte”, prerogativa questa particolarmente evidente e amata da Grazia Varisco, che ha costantemente pensato al suo lavoro e all’ideazione delle sue opere come a una esperienza in divenire. Il cinetismo reale di questi oggetti, li pone in relazione a un modello che non è tanto spaziale, quanto temporale. L’immagine e la sua concreta struttura formale, hanno un rapporto prioritario non con la materia, ma con il tempo. Il tempo interviene sulla materia modificandone continuamente le caratteristiche, dando pertanto vita a una forma in perenne formazione.
(…) E’ attorno al 1974 che, dall’osservazione di una anomalia non infrequente, come la difettosa piegatura della pagina di un libro o di una rivista, Varisco inizia a svolgere una riflessione che la conduce, non solo a realizzare una delle sue serie più interessanti di opere, ma anche a sviluppare un insieme di osservazioni concatenate, che trovano elementi di connessione perfino con il più recente lavoro di scultura.
A destare l’interesse dell’artista è, ancora una volta, il caso che si inserisce nella programmazione. (…) Da qui l’inizio di una sequenza di opere intitolate Extrapagine, perchè a tutti gli effetti appartenenti alla categoria delle pagine, ma appunto altre, diverse, non appartenenti a. Nell’esplorazione del fuori regola, Varisco scopre come la molteplicità, in questo caso letteralmente, nasce dai molti modi del fare pieghe.
Lo spostamento procurato dalla piega si ripercuote sull’intera pagina e, per più aspetti, si amplifica. La pagina ha infatti una valenza simbolica che va oltre la sua dimensione fisica. La pagina è un luogo di accadimenti, dove le proiezioni mentali incidono come e forse più degli effettivi messaggi contenuti nel testo.
(…) Grazia Varisco non è interessata all’occupazione, ma all’individuazione dello spazio. I pieni sono fatti per permettere ai vuoti di rivelarsi. Lei stessa ha dichiarato: “… nell’opera in cui lo spazio viene ospitato – come preferisco dire, per indicare un atteggiamento opposto a quello che la scultura esercita solitamente come ingombro – la scultura interagisce realmente con lo spazio …”
(…) L’idea di torsione e destrutturazione che trasmette l’oggetto, la sua costituzione azzardata eppure definita, si riflettono sul rapporto con lo spazio che, per l’appunto, è estremamente aperto, così da permettere una sensazione di mobilità della struttura e dell’idea che le sta dietro.
Ancora su questo concetto, nel 1995, compaiono altri lavori dal titolo Fraktur, dove viene in prevalenza accentuato l’aspetto della distorsione, della sfasatura tra due ipotetici piani delimitati da una struttura in ferro. Ma è stato probabilmente nell’occasione di una mostra allestita nello stesso 1995 che, una scultura di questa serie, ha dispiegato al meglio le sue potenzialità nei confronti dello spazio. (…) In particolare lo spazio era accolto, rivelato nella sua qualità di vuoto, come dice ancora l’artista nel corso della stessa dichiarazione prima ricordata:” Credo che l’interesse a mettere in evidenza il vuoto, che in alcune opere recenti è diventato il motivo predominante, sia vicino a un atteggiamento proprio della mentalità orientale … ”
(…) Che lo spazio al quale Grazia Varisco si è sempre più riferita in questi anni, sia uno spazio che non ha e non vuole avere più un centro, che ama farsi luogo nel momento in cui è la stessa opera a divenire luogo, non poteva essere diversamente, essendo questi concetti parte della sua cultura e della sua storia. Anche l’idea di permanenza, di fissità dell’oggetto plastico, è sostituita da quella concezione di un divenire incessante, di uno scorrimento ininterrotto, che appartiene ai suoi stessi esordi.
Lucia Enrini - 'Profilo artistico e itinerario della ricerca' in Giovanni Maria Accame, Grazia Varisco 1958/2000, Maredarte, Bergamo 2001
(…) Varisco ricorda gli anni 1974-’75 come fondamentale periodo di stasi, riflessione, quasi di ‘azzeramento’, necessario per compiere una svolta e trovare nuovi stimoli per la maturazione del suo lavoro. L’esigenza di fermarsi, di interrompere il flusso di un percorso ormai lungo e ricco di esperienze, immagini, opere – che, divenute abituali, finiscono per intorpidire la mente – conduce l’artista a vivere una sorta di convalescenza, come lei stessa la definisce. E’ un momento di concentrazione su aspetti più essenziali, sull’essenza del pensiero, indispensabile per concludere una fase esistenziale-artistica e ripartire con mente e occhi nuovi, ancor più sensibili, dai segni della pre-scrittura. Tale desiderio di vuoto, utile per un recupero di invenzione determina osservazioni e riflessioni silenti, una ricerca di assenze più che di presenze. Nelle Assenze Varisco prende spunto da un dettaglio semplice, generalmente inosservato (togliendo un quadro appeso da tempo, lo spazio chiaro lasciato sulla parete), per una meditazione sulla percezione delle immagini, la memoria, la sedimentazione del tempo che scorre. La forma è il vuoto, è virtuale, è percepita ma non concretamente tangibile”.
(…) La ricerca di Varisco è quindi contraddistinta da un’evidente varietà di soluzioni formali, tecniche, materiche – mai soffermandosi su una ‘cifra’ facile, riconoscibile – nella coerenza di un itinerario di indagine condotto con metodologia analitica, sostenuta dal piacere di una manualità costantemente esercitata. Tale atteggiamento lascia spazio alla sorpresa e all’invenzione, alla sperimentazione continua – a carattere scientifico o ludico – e appare fondato sulla sensibilità personale dell’artista, sulla sua capacità di meravigliarsi davanti a un evento reale o percettivo, cogliendone poi gli aspetti più interessanti a livello fenomenologico ed estetico. Questi vengono analizzati razionalmente, con la gioia di scoprire come un’operazione apparentemente semplice o banale possa rivelare implicazioni di ricerca complesse e profonde, che hanno condotto, in quarant’anni di lavoro, a esiti legati da un filo di pensiero mai smarrito. Ad esso è possibile ricondurre le opere, le grafiche, i bozzetti che riempiono casa e studio e gli innumerevoli appunti scritto-grafici o tridimensionali che compongono l’inedito Zibaldone dell’artista, nonché scritti teorici, pensieri e poesie: testimonianze che nell’insieme esprimono appieno l’autentica personalità umana e artistica di Grazia Varisco.
Elisabetta Longari - 'Grazia Varisco. Double Face' in “Terzocchio”, n. 101, Bologna, dicembre 2001
Questa mostra, con la proposta di una decina di opere recenti, non di limita a richiamare l’attenzione sul fare attuale dell’artista, ma si offre evidentemente come occasione per compiere una intera riflessione sul suo intero percorso, sviluppatosi nell’arco di quarant’anni.
La ricerca di Grazia Varisco nasce dal desiderio di conoscere meglio i nostri sguardi: ha come nucleo centrale e germinativo la “meraviglia” di ogni evento percettivo reale. Il suo lavoro si applica a cogliere, evidenziare, “inventare” eventualità, modalità, occasioni della “storia dell’occhio”. In questa indagine di “rilevamento” non agisce mai con l’obiettivo di affrontare un problema per “chiuderlo” in una soluzione. L’evento percettivo viene coerentemente analizzato con il piacere della scoperta che l’azione apparentemente semplice del vedere sottintende invece molteplici connessioni cui presiedono diversi meccanismi. Gli spazi che Grazia organizza vivono del proprio continuo interrogarsi che svela l’idea che l’artista ha dell’”essere” come costante trasformazione in atto. Quello che vediamo è un rebus che posta già in sé quello che potrà apparire a decifrazione avvenuta.
“La presenza stabile di un’immagine, il suo diventare abitudinaria finisce per intorpidire la mente”. (Note di vacanza, 1977).
La sua ricerca dedica particolare attenzione sia agli aspetti percettivi del movimento che alla transitorietà e all’instabilità, arrivando, in tempi più recenti, ad evidenziare lo spazio con l’uso di segni essenziali che obbligano a fare i conti con l’ambiguità. In questo caso troviamo grandi fogli di lamiera “lesi”, attraverso le cui lacerazioni passa un’asta che, scostando i lembi dello strappo, esplicita e esalta la doppia anima delle forme: diritto e rovescio, sopra e sotto. Lo spazio è sempre messo in gioco in modo radicale e “mobile”. (…)
Annamaria Maggi - 'Tra immagine e qualche parola. Intervista a Grazia Varisco' in Giovanni Maria Accame, Grazia Varisco 1958/2000, Maredarte, Bergamo 2001
(…) Annamaria Maggi: Il linguaggio può favorire la comprensione dell’immagine e dell’espressione artistica per cui, se puoi, trovami delle parole chiave che definiscono il tuo lavoro, quello di oggi, ieri e domani.
Quali mi suggeriresti? Quali sono le parole nelle quali riconosci il tuo modo di lavorare: astrazione, immagini, movimento, geometria, colore, non-colore?
Grazia Varisco: Sì… ci provo. Nel mio lavoro tento di dare “la forma” a temi e concetti che vorrei si manifestassero per quello che sono, voglio dire proprio nel loro essere a volte poco chiari, un po’ enigmatici e di conseguenza ambiguamente celati anche nelle soluzioni che adotto.
Sono temi ricorrenti, che si rintracciano con più o meno risalto nelle varie fasi sin dall’inizio della mia attività. Il programma e il caso, la relazione fra gli opposti, l’ambiguità, l’anomalia, l’irregolarità, la leggerezza, la precarietà, l’alternanza tra luce e ombra: sono tutti argomenti che scelgo di elaborare mettendo in gioco una sorta di disagio percettivo che mi sembra corrispondere al carattere specifico dei temi e che vorrei sollecitasse la partecipazione in chi osserva.
A.M.: Oggi, a più di 40 anni da quelle iniziali e pionieristiche esperienze nell’arte cinetica/programmata, quale ritieni sia il tuo ruolo attuale nell’arte?
E cosa invece é cambiato nel tuo fare arte?
G.V.: L’atteggiamento di fondo mi sembra lo stesso di allora… – per la verità, a intervalli, un po’ sfiduciato – nella pratica, al dunque, sono ancora vittima di entusiasmi; mi piace, mi diverte ancora questo rapporto testa/mano…
Il lavoro, nelle forme che assume nel corso degli anni, è cambiato ma, nelle varie fasi, rintraccio un percorso che indaga gli stessi temi di base che nel tempo sono maturati, si sono arricchiti di riflessioni e di esperienze formali diverse.
Per esempio nel corso delle esperienze, i miei interessi si sono spostati verso la tridimensionalità, così nell’uso della geometria ho adottato soluzioni formali che anziché evidenziarla, tendono a smentirla o a renderla indecifrabile; si producono così effetti insospettati e sorprendenti che mantengono sospesa la percezione di spazialità diverse.
A.M.: Come leghi le tue esperienze artistiche passate a quelle di oggi?
Quale ritieni sia stata la tua esperienza artistica che ha meglio legato la tua produzione ad una visione internazionale dell’arte?
Il tuo lavoro é nato con l’intenzione di indagare dei fenomeni ottico-percettivi; in che misura oggi mantieni vivo tale procedimento nelle tue opere?
G.V.: L’interesse ai fenomeni percettivi era ed è esteso alla sensorialità nella sua completezza. Alcune esperienze erano indirizzate specificamente al visivo: queste opere sono più conosciute anche a livello internazionale, perché erano più facilmente proponibili per essere esposte nelle mostre spesso itineranti in Italia e all’estero. Comunque da allora, – ma già allora nella mia mostra da Schwarz nel ‘69 e in “Como campo urbano” – ho più frequentemente preso in esame lo spazio, la tridimensionalità, il vuoto come condizione in cui verifico con più completezza il mio esserci, il mio stare, il mio muovermi, il mio viverlo.
Il cambiamento più evidente o per lo meno quello di cui sono consapevole é l’attenzione a sottrarre al lavoro, nella soluzione formale, tutto il peso, come dire, tutto il superfluo che caricando l’immagine, ne impoverisce, o comunque disturba il contenuto dell’esperienza. (…)
Gianni Contessi - 'Appunti minimi per Grazia', pieghevole della mostra, Spazio Olim, Bergamo, 2003
(…) Nel tempo, risulta il saggio di una serie di concetti e tipologie che, da sempre, stanno alla base dell’esperienza della forma: l’angolo e l’angolarità, il piegare, la frattura, l’accoppiamento, cui vanno aggiunti le implicazioni e gli gnomoni, sorta di scrittura lineare estesa nello spazio che, (quasi) come le aste delle meridiane solari, proiettano le loro ombre sulle superfici circostanti.
Il corpus delle carte di Grazia Varisco non configura un discorso sul metodo come quello proposto a suo tempo da Franco Purini con la sua raccolta di tavole disegnate, intitolata Come si agisce/Dentro l’architettura. Più empirica, Grazia con il suo lavoro, sembra voler riproporre, attraverso la duttilità del materiale, quell’elogio della mano che, da par suo, Henri Focillon aveva pronunciato in epoche ormai remote.
Nell’epoca della progettazione elettronicamente assistita e pure in sintonia con il pensiero e la grande tradizione del nuovo novecentesca,
sancita dall’avanguardia costruttivista, di cui, in qualche misura, la sua opera è partecipe, Grazia Varisco ribadisce l’importanza dei gesti la cui attualità è garantita da quel tanto di inattualità – il fatto a mano, appunto – che l’artigianalità reca con sé. Nel caso di Grazia, poi, ciò ha un valore particolare, poiché l’artista, proprio per le sue origini culturali, non esclude il confronto con il mondo della tecnica, con l’intervento dell’officina.
I segni affidati alla fragilità della carta possono anche tradursi in solide, per quanto “leggere”, strutture di ferro. Le carte di Grazia Varisco e le sue piegature non sono quelle dell’origami. Non è la piegatura in sé lo scopo del piegare: essa piuttosto serve a contestare la precisione di un assetto, serve da motore per una successione di scarti; è, ancora, agente di una forma agibile.
Ed è appunto nella varietà e nella variabilità della vita delle forme che possiamo individuare il territorio nel quale lo sguardo acuto e sensibile di Grazia Varisco ama avventurarsi con sistematica libertà.
Sandra Montagner - 'Gioco, spazio, progetto', pieghevole della mostra, Spazio Olim, Bergamo, 2003
(…) Proprio lo SPAZIO costituisce il secondo tema portante della riflessione artistica di Varisco: non siamo tanto di fronte ad una dimensione architettonicamente connotata, quanto piuttosto all’intimità dello spazio quotidiano, luogo di scoperta di piccoli avvenimenti, casuali, banali, quasi, che innescano però una provocazione percettiva ed estetica. L’artista si impegna a rivelare i nuovi caratteri dello spazio individuati non attraverso la costruzione e l’occupazione ma piuttosto sottraendo, alleggerendo (di nuovo il tema della leggerezza) e rivelando insomma le qualità creatrici del vuoto.
Dalla piega che anima, apre vorremmo dire, la pagina, all’esplorazione dell’ambiguità degli angoli, luoghi misteriosi in cui fine e inizio sembrano compenetrarsi, le nuove situazioni percettive che Varisco ci offre si costruiscono integrando realtà concreta (i piani) e illusioni (le ombre, la luce, il vuoto). Il nuovo spazio non può che rivelare quell’ambiguità che deriva, per usare una metafora biologica, dal suo corredo genetico: sarà dunque privo di un centro, di una identità univoca, per farsi invece luogo di esperienza in continua trasformazione. (…)
Federico Sardella - 'in silenzio' catalogo della mostra personale, Galleria Peccolo, Livorno, 2005
Il silenzio è una scelta. Grazia Varisco spesso tace non perchè non ha nulla da dire ma semplicemente perchè ascolta! Ascolta di tutto la Varisco. Dalla crepa nell’asfalto ai nastri colorati dell’oratorio in festa che vibrano sollecitati dal vento. Dal segno lasciato sul muro da un quadretto che è stato momentaneamente spostato al gridolino di piacere che emette il cartone da imballo quando viene “spellato” andando a levare quel sottile primo strato che riveste le “onde”.
I Silenzi di cui mi appresto a scrivere affondano le loro radici nel passato essendo conseguenza di operazioni e attenzioni ricorrenti nel lavoro di Grazia Varisco. Il passato di cui parlo è abbastanza lontano se si pensa che da qualche parte nello studio, in un cassetto o forse tra le pagine di un quaderno, la Varisco conserva ancora uno schizzo-scarabocchio degli anni dell’Accademia che raffigura volto severo che con il dito poggiato sulla bocca ci indica il silenzio.
(…) La possibilità di accesso all’opera – non il limitarsi al solo guardare, magari anche con trasporto, ma il toccare, l’entrare, l’intervento diretto, la partecipazione, il coinvolgimento fisico oltre che emotivo – da parte del fruitore è una delle caratteristiche che dal 1959, anno a cui risalgono le prime Tavole magnetiche, contraddistinguono il fare di Grazia Varisco.
Anche in questi recenti lavori a chi guarda è riservato un ruolo fondamentale e fondante. Forse dovrei fare un piccolo passo all’indietro e accennare, almeno per quanto mi è concesso svelarvi, alla nascita dei Silenzi. Il tutto avviene nello studio, ovvio direte… ma non è così scontato come parrebbe. Spesso intuizioni e suggestioni o la cosiddetta ispirazione giungono dall’esterno, dalla strada, da incontri e da contatti, dall’osservare e ascoltare quello che ci circonda. Questa serie di opere nascono in studio e ad esso sono strettamente legate.
Il primo dei Silenzi è, infatti, costituito da un passe par tout, probabilmente in attesa da tempo e finalmente preso in esame con il dovuto rispetto, sovrapposto ad altri tre fogli di cartone vuotati a mo’ di cornici e aventi luci di dimensioni differenti, il tutto non incollato ma tenuto assieme da due binder clips. Questa opera nasce in un “interno”, realizzata con i materiali a disposizione nello studio dove naturalmente gli avanzi, le carte e i cartoni vivono accatastati, ma immediatamente l’opera tende a spingersi oltre, ad offrire svariate possibilità di visione, a suggerire una spinta fortissima e inevitabile verso l’esterno.
Da questo primo lavoro a fogli mobili ne sono nati una serie pensati appositamente per questa mostra nella Galleria Peccolo.
Di dimensioni differenti e realizzati con svariate qualità di cartone, in alcuni c’è addirittura un accenno di colore, questi Silenzi si mostrano come precari – il mio arredo è precario… se si sposta il tavolo potrebbe crollare la libreria, staccarsi la lampada e così via… – ed allo stesso tempo definitivi.
I fogli di cartone sovrapposti gli uni agli altri sono saldamente incollati – dare la colla su di una superficie è un po’ come disegnare… – ma suggeriscono in ogni caso la possibilità di scorrere come le porte che separano gli ambienti di una casa giapponese. Nel loro perfetto equilibrio tra tensione e quiete questi “lavori su carta”, o meglio, di carta, ci parlano silenziosamente di qualcosa che manca, proiettandoci in una condizione di continua attesa e ascolto.
Se i cartoni permettono un tipo di accesso con lo sguardo e con la mente, l’ultimo dei Silenzi ci consente di allungare la mano per far sì che il vuoto che costituisce il nucleo dell’opera possa cambiare forma. I piani bucati sovrapposti sono stati realizzati, con la complicità di un artigiano di fiducia, in lamiera smaltata e hanno la possibilità di scorrere. Grazia Varisco, formulando molteplici ipotesi di spazio, ci ricorda che è cosa buona e giusta sforzarsi di osservare da più punti di vista.
Questi Silenzi siamo noi a colmarli con tutto quello che ci possiamo scorgere. Ascoltare un Silenzio è ascoltare il silenzio che c’è in noi, sondare le nostre infinite solitudini, fare spazio per un attimo di quiete.
Alberto Giacometti afferma che l’arte è soltanto un mezzo per vedere e Grazia Varisco ci offre una finestra, anzi più d’una, dalla quale intraprendere una passeggiata che ci conduce in questi suoi teatrini dai sipari lacerati. Teatrini costruiti nella forma più concisa e diretta possibile, semplici ma quanto mai vicini al complesso senso reale delle cose, sino ad arrivare ad udire il non udibile silenzio.
Jacqueline Ceresoli - 'Se guardo ascolto lo spazio', catalogo della mostra, Rotonda di via Besana, Milano, 2006
Varcata la soglia della Rotonda di via Besana a Milano, trasformata in un teatro suggestivo d’arte contemporanea, il sipario si apre sulle opere recenti di Grazia Varisco, che mettono in scena tensioni tridimensionali e possibilità combinatorie tra luce, forma, superficie di una logica imprevedibile. È un percorso al contrario, parte dal presente e si conclude con le esplorazioni di forme dell’energia, con le Tavole magnetiche, studi cinetici, sperimentate nell’ambito del Gruppo T, quando gli oggetti rappresentavano la continuità dell’applicazione al lavoro rigoroso dell’arte.
Grazia Varisco, coerente alla sua vocazione di dar consistenza allo spazio attraverso forme prima programmate e poi visualizzate, anche come ombre, mette sempre al centro del suo fare chi guarda, eleggendo lo sguardo analitico come misura della percezione nei suoi dettagli e nelle molteplici piegature. Sono opere-specchio che riflettono una filosofia del vedere che pensa lo spazio. Troveremo che i suoi molteplici “oggetti ansiosi” – l’espressione è del critico d’arte Harold Rosenberg – sono di una calma apparente, di un vuoto colmo di possibilità esperienziali da esplorare come luogo
di accadimenti e azioni. Si tratta di opere volutamente doppie e consapevoli di eludere il reale, affascinanti in quanto esprimono direzioni imprevedibili, in cui si azionano tensioni contraddittorie e armoniche nello stesso tempo che sorprendono lo sguardo di chi percorre gli ambienti austeri e sacrali della Rotonda. Le sue opere, che Clive Bell avrebbe definito come “forme significanti”, scandiscono lo spazio in maniera ritmica, là dove le forme non sono l’espressione della cosa in sé, ma diventano l’idea che contiene un’astrazione matematica, sublimando luoghi
potenziali e fughe di sguardi possibili. Per Varisco gli attori in scena sono sempre le forme, i volumi, i materiali, e le stesse ombre delle sculture che proiettandosi sulle pareti costituiscono un coro metaforico che evidenzia scenari precari, spaesanti e fluttuanti attraversati dall’aria, dall’energia e alleggeriti dal respiro che circola tra un’opera e l’altra. Grazia Varisco si racconta partendo dai Silenzi (2005): lo spettatore comincia il suo viaggio con un salto nel vuoto intorno al suo fare artistico svuotando lo sguardo sulle cose e ripensando le forme, preparandosi alla visione di possibilità combinatorie sulla flessibilità dello spazio.
Sono opere-specchio che meditano sulla profondità immateriale del vuoto e sulle probabilità dell’imprevedibile che esso evoca. Iniziato il viaggio, ci avventuriamo tra le variabili che possono tradire metamorfosi formali inattese, e coglieremo non il pieno ma il vuoto tra una forma e l’altra, sgravando la nostra mente dall’eccesso di volumi, costruzioni, segni, tracce, stratificazioni di materiali, immagini depistanti. Chi guarda le opere di Varisco vedrà lo spazio come un iconoclasta e tenderà l’orecchio all’ascolto del movimento implicito alle sue opere. L’artista, attraverso forme create come architetture della visione, di una logica ferrea, mette in discussione
lo spazio con volumi che indagano la precarietà. Tra un’opera e l’altra la tensione è quasi palpabile; idealmente Varisco condivide con lo spettatore una dimensione fisica e concettuale al tempo stesso, diventando complice nelle variazioni dello sguardo del visitatore per dare un senso a ciò che è accaduto: un’esperienza del divenire. […]
Dopo i Silenzi (2005), che parlano di movimenti impercettibili già impliciti nelle opere degli anni Settanta chiamate emblematicamente Assenze, lo sguardo si dilata e medita sulla prefigurazione del sentire il vuoto con opere-teatrini-finestre di zone neutre aperte all’immaginazione. Commenta l’artista: “L’occhio vede ma la mente rivendica un suo spazio, un suo vuoto: per un recupero di invenzione.” Questo raffinatissimo gioco ottico-percettivo in bilico tra spazialità fisiche e immaterali determina articolazioni costruttive seducenti anche in Sollevo/Sollievo (2002), installazione dal titolo significativo, composta da elementi in rete angolari che imbrigliano la visione con ombre proiettate su pareti bianche come schermi. In questa mostra domina il bianco come assioma dello spazio assoluto. Le opere, silenti, meditative, scandiscono in maniera ritmica il percorso espositivo, componendo ideali spartiti sulla disponibilità alla visione di forme potenziali che sconfinano oltre i valori tradizionali dell’architettura e della sua immagine rigorosa, poiché innescano un dialogo tra la realtà fisica e quella immaginata. Lo spettatore, avventurandosi a ritroso tra le opere realizzate dal 2005 al 1985, troverà forme pulsanti, dinamiche ma silenziose, come campi d’azione di nuove speculazioni geometriche che raggiungono il culmine della rappresentazione dello spazio attraverso un processo di sottrazione e negazione degli ambienti reali, con oggetti che sembrano circondare il vuoto. Varisco formalizza ipotesi dello spazio assoluto
come luogo della speculazione intellettuale per antonomasia e non procede mai a schemi fissi, ricontestualizzando costantemente le stesse forme geometriche primarie partendo dalla variabilità dello sguardo. Sperimentatrice assidua dei materiali industriali (vetri, perspex, alluminio, neon ecc.) e poveri (cartoncino, carta), Varisco trasforma l’oggetto in strumento di pensiero. Dalla metà degli anni Settanta la sua figura piana comincia a postulare effetti tridimensionali già impliciti nelle opere cinetiche degli esordi. Il metallo, neutro o verniciato, e la luce determinano per l’artista articolazioni di energia che puntualizzano originali contrappunti formali. Le sue opere iconizzano la potenzialità della luce stessa, entità astratta ma costruttiva che proietta ombre e origina dubbi percettivi, mettendo in discussione il peso specifico degli oggetti e la volumetria delle sagome metalliche; sono essenze strutturali ispirate a Mondrian, come prove di un interspazio concettuale.
Franecsco Tedeschi - I quadri “comunicanti``, in ``Grazia Varisco``, catalogo della mostra, Fioretto Arte, Padova, 2009
Le sequenze di quadri “comunicanti”, che costituiscono la più recente definizione visiva del lavoro di Grazia Varisco, manifestano, come sempre – o quasi sempre – nel modo di progettare e presentare scansioni formali, una immediatezza logica e comunicativa. Questa concerne tanto il rimando “figurativo”, quanto la ragione che sottende le loro ideazioni e disposizioni. L’immagine che esse evocano è quella che il titolo stesso rivela, con il riferimento al principio dei “vasi comunicanti”, figura che diviene metafora, nel mondo dell’artista, del rapporto tra le condizioni di stasi, o equilibrio, e di moto, o modificazione temporanea delle condizioni prodotte dall’intervento mentale o manuale sulla realtà esterna. Da questa “immagine” si ritorna quindi ai principi che governano il modello operativo di Grazia Varisco da sempre, semplificabili all’interno delle relazioni, ogni volta rinnovate e rinnovabili, fra regola e caso, fra invenzione e composizione, fra leggerezza e fisicità. Come ella stessa dichiara, in un suo breve commento che, come sempre, fornisce le ragioni implicite di ogni serie di lavori omogenei, anche questi Quadri comunicanti vanno in primo luogo all’insegna del “qualunque”, cioè di una casualità che originariamente non è predeterminata e che introduce la variabilità come modello originario: “Tutti questi qualunque suggeriscono una provvisorietà, una precarietà, una condizione di bilico incerto che si fissa, ma non trova quiete nemmeno in un allineamento rettilineo, rigido e perentorio.” […]
Nel lavoro di Grazia Varisco ancora una volta entrano in gioco componenti meno assertive, per cui il legame tra scienza e arte, comunque ed effettivamente da lei chiamato in causa, si qualifica all’interno di un dialogo fra linguaggi differenti, per proprietà e per risultati. […]
In analogia con i Quanta di Fontana, che liberamente possono essere combinati e disposti nello spazio, i Quadri comunicanti di Grazia Varisco non sopportano la rigidità di un sistema, pur essendo sottoposti a una logica che ne determina la collocazione su un orizzonte visivo dato. Inoltre, e questo elemento diventa determinante per ricollegare questo gruppo di nuovi lavori a tutta la storia dell’opera di Grazia Varisco, essi hanno a che fare con lo spazio concreto in un modo che si pone nel punto di intersezione e di separazione fra il carattere visuale di ogni realizzazione bidimensionale e la presenza fisica più marcata di un lavoro tridimensionale, o che comunque invade lo spazio in tutte le direzioni.
Per questo, riconducendo lo spazio a motivo centrale di un modo operativo e visivo che trova poi forma nella singolare presentazione, ogni volta rinnovabile nel luogo specifico in cui si concretizza, mi sembra di poter trovare una possibile radice di questi lavori in un’opera eseguita da Grazia Varisco nel 1972, accompagnata da un altro testo esplicativo utile a cogliere, nei frammenti di un diario discorsivo legato ai nuclei di opere da lei concepite, un aspetto della relazione da lei istituita fra ciò che si vede e ciò che l’immediatezza dell’opera produce. Si tratta di quello che l’artista ha denominato “spazio potenziale”. […]
In quel caso, una cornice quadrata restava come sospesa rispetto al quadro monocromo, delle stesse dimensioni, al quale era correlata, esercitando una forzatura che portava all’illusione del movimento, facendo ruotare virtualmente l’elemento stabile e fisso verso un’inclinazione diagonale, mediata, forse, da memorie suprematiste e costruttiviste, ma soprattutto induceva a leggere come complementare a una forma data la sua ombra, fattore che diversamente e in più occasioni da allora l’artista si è trovata a inserire o richiamare con le forme elaborate sia in quegli stessi anni Settanta, fino agli Gnomoni degli anni Ottanta, sia, in tempi ancor più vicini, con le sculture di forme solide, rettilinee e curvilinee, destinate a divenire quasi-numeri o quasi-parole – mirabile in quel senso il dialogo attorno al cerchio di Oh! (1996).
Nel suo lavoro, spesso sorretto da figure ambigue che fungono da elementi di mediazione fra gli impulsi derivanti dalla regola alla quale li sottopone e gli elementi di rottura della stessa, l’ombra o le ombre hanno spesso proprio la funzione di contestualizzare la dialettica tra ragione e fantasia, dimostrando o applicando il modello tridimensionale. Se il maggior inganno visivo che la tradizione artistica, non solo occidentale, ha prodotto, è quello della trasposizione in “figure” bidimensionali delle realtà tridimensionali, ogni intervento che si pone sul discrimine fra l’una e l’altra propone in qualche modo un tentativo d’incontro (fra pittura e scultura), solidificando le ombre. Forse questo processo, quasi una trasmutazione di stato, dal liquido al solido, è ciò che avviene in questi recenti “quadri comunicanti” di Grazia Varisco, spazi virtuali a parete, dove la liquidità del colore si rapprende sulla linea che determina una continuità travalicante il singolo pezzo, anche se ciascuno dei riquadri appare libero di creare un proprio spazio, di immaginare un movimento, di suggerire un’energia, lottando così contro la fissità di ogni soluzione definitiva.
Elisabetta Longari - 'Lo spazio come campo attivo', in ``Se...`` catalogo della mostra personale, Museo della Permanente, Milano, 2012
“Lo spazio è un dubbio”
Georges Perec, Specie di spazi [1974], trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 110.
L’opera di Grazia Varisco agisce nel vivo degli accadimenti visivi, si sviluppa per indagine e verifica delle strutture percettive, intese non in senso puramente gestaltico ma piuttosto come insieme di fenomeni sinestetici. L’autrice coglie al volo disfunzioni, slittamenti e zone d’ombra del nostro complesso modo di recepire il mondo che ci circonda, vi si sofferma mettendone a fuoco limiti e ambiguità per giocarle infine a proprio vantaggio, o meglio, a vantaggio di un’arte viva, che si pone per lo spettatore come autentica esperienza di un altrove che non ha nulla di ornamentale.
Il lavoro di Grazia Varisco si organizza in modo tale da stanare l’osservatore dalla sua immobilità di lucertola. È volto principalmente a creare disturbi nelle abitudini percettive, fornire alternative, procurare piccole vertigini causate da indicazioni spaziali multiple, e magari anche discordanti tra loro, che si aprono contemporaneamente alla lettura dell’osservatore, con il risultato di spingerlo, incerto e “senza rete”, verso il precipizio della complessità, costringendolo a prendere atto, con meraviglia, dell’interessante eppure disorientante provvisorietà di ogni fenomeno.
Attualmente l’artista ottiene questi effetti principalmente attraverso la disposizione di elementi che giocano più sull’azione dei vuoti che non dei pieni e che nella loro relazione danno origine a luoghi di particolare tensione generativa. L’energia pare spesso non ancora completamente liberata, in attesa del fruitore che con la propria presenza ne costituisce l’ulteriore e necessaria attivazione perché si sviluppi un gioco di rimandi tutto sommato semplice e articolato ad un tempo.
Fatta di forze opposte sempre in dialogo, spesso ampliata dall’immissione di materiali nuovi, extra-artistici, trattati in modo sorprendente, tanto assecondandone la natura intrinseca quanto a volte invece usati “contropelo”, l’opera si situa in un territorio che è altresì di negazione. Negazione in primis del principio di univocità, quindi di quello di assertività, stabilendosi in un Between, termine inglese preferito a quello corrispondente italiano per la sua precisione nell’indicare uno stato esattamente posto “tra due”. Questa parola, che definisce al meglio la zona ambigua e fertile in cui germogliano le sue operazioni, – tra presenza e assenza, tra realtà e apparenza, ecc…- è spesso adoperata da Varisco per parlare del proprio fare ed è stata adottata anche come titolo di un’installazione del 1981. Between è una complessa struttura di chiara derivazione cantieristica, una sorta di palizzata particolar mente ricca di indicazioni. Essa contiene notevoli elementi turbativi tra cui figurano perfino sottili lamine di specchio[1] che funzionano da detonatori dell’ambiguità e fanno da catalizzatori del disagio percettivo, mentre contraddicono parzialmente il disturbo causato dall’occlusione dello spazio creato dalla barriera.
La sottolineatura sfasata dell’angolo, amplificata dalla ripetizione insistente in ritmi diseguali, serrati e irregolari, della riga diagonale che genera allarme, causa un effetto particolarmente straniante. Il codice visivo della strada in questo lavoro risulta in qualche modo rovesciato, non è più un linguaggio utilizzato per fornire chiare indicazioni, anzi veicola un messaggio altamente contraddittorio che genera confusione, depista e inocula perplessità.
L’ombra, la danza e il vuoto
Nel praticare il gioco del rovescio, Varisco da tempo ha incontrato, insieme al vuoto, anche l’ombra, che in particolare è portatrice di un quid d’indefinito e mutevole che implica una ricchissima potenzialità generativa di altri elementi visuali e rende più complesso il coinvolgimento percettivo. L’ombra, cangiante epifania del buio in cui sempre è acquattata una luce che sopravvive come campo d’attesa; l’ombra come moltiplicazione, complicazione, miraggio, nascondiglio, equivoco, doppio, deformazione e contiguità; l’ombra dalla consistenza nel contempo concreta e impalpabile, così com’è sospesa tra essere e non essere –nihil in umbra, sine umbra nihil-, entra nel lavoro di Varisco con Meridiana [dal 1974], per prendere decisamente campo con le Implicazioni e gli Gnomoni [dal 1984]. A proposito di questo ciclo, l’autrice, che è sempre molto lucida nel guardare al proprio lavoro e ai meccanismi creativi che lo informano, dichiara la centralità delle << […] ombre che interagiscono ambiguamente, forme che si allacciano e si slacciano nelle ombre che proiettano>>. Gli Gnomoni, e in particolare le Implicazioni, danno luogo a ritmi variabili, che vengono seguiti dallo sguardo come una danza, o come il volo di uno sciame, fenomeni che modificano continuamente l’offerta percettiva. Già Alberto Veca in uno scritto di presentazione di una mostra/duetto di Pardi e Varisco introduce l’immagine della danza: << E si tratta di un dialogo fra spazio e tempo che assume la felicità della danza>>.[2]
Del 1978 sono due serie di opere significativamente intitolate Plié e Demi-plié,( pag.128) i cui titoli sono prelevati direttamente dal linguaggio della danza classica.
Sempre Veca, nel testo precedentemente citato, sottolinea che ciò che accomuna il fare dei due artisti, Pardi e Varisco, è la loro sostanziale natura interrogativa[3].
Le azioni che connotano in successione il processo creativo di Varisco sono: guardare, anzi osservare attentamente, raccogliere indicazioni, dedicarsi a comporre e scomporre al tempo stesso “una frase” attraverso il proprio alfabeto di segni sempre riconoscibili ma anche sempre diversi, e ciò è particolarmente vero soprattutto per le ultime opere, spesso composte da diverse declinazioni della medesima forma distribuite nello spazio a “scriverne” il vuoto, costruendolo in altro modo.
I suoi lavori, che nascono come verifiche incerte di dubbi percettivi, sono anche intrisi di gusto per il divertissement.
L’artista sembra da un certo tempo a questa parte sempre più interessata a organizzare dialoghi articolati tra elementi semplici: ogni elemento, anche quando sembra assestarsi in una sorta di equilibrio formale, subito lo nega, caricandosi di potenziali altri, quali il mutevole gioco delle ombre, la relazione con il vuoto e con altri elementi che gli somigliano in modo perturbante, come un doppi distorti.
Da un certo punto in poi le opere si sviluppano con respiro più libero nello spazio dell’ ambiente, si vedano i cosiddetti Gnomoni-Fuga [dal 1986],mentre gli elementi che le compongono sono tenuti assieme da una dinamica aggregativa/disgregativa complessa, portata al limite, come se fossero calamite poste nel punto in cui potrebbe bastare spostarle di un millimetro perché non avessero più la forza di fare presa tra loro. La tensione è evidente, palpabile. L’intervallo tra le forme diventa presenza vibrante.
Sono i vuoti a essere messi in condizione di lavorare fertilmente una volta attivati, spinti, frenati, contenuti, lambiti, liberati dai segni che Grazia distribuisce nello spazio che diventa tutto immediatamente percepibile come parte dell’opera. Come scrive Accame nel 2001, << Grazia Varisco non è interessata all’occupazione, ma all’individuazione dello spazio. I pieni sono fatti per permettere ai vuoti di rivelarsi>>.[4]
Il vero protagonista è il vuoto, cui l’autrice dedica perfino una riflessione scritta[5]. Riesce a farci vedere il vuoto.[6] Per visualizzarne immediatamente la centralità si guardi soprattutto a Tri-angolo [1988].
La mobilità, l’impertinenza e lo
Del resto le sue forme hanno sin dall’inizio una natura inquieta e pronta al cambiamento. Già con i lavori della metà degli anni sessanta, attraverso l’uso del vetro industriale in opere come i Reticoli frangibili e i Mercuriali [1965-1971], Varisco metteva in crisi la visione univoca e a repentaglio ogni certezza percettiva, mentre lo sguardo dell’osservatore slittava e le immagini si rompevano e ricomponevano senza posa; non consentendo alcun assetto definitivo.
Scrive Sardella, individuando il carattere in fieri dell’opera: << […] Varisco, che da sempre si muove cercando di dare forma a qualcosa che sta accadendo, rendendo fruibile quel che altrimenti sarebbe passato [inosservato] e visibili spazi potenzialmente reali, in divenire, soggetti a possibili continue variazioni, ambigue e imprevedibili […].[7]
Spazi potenziali è il titolo di una serie di lavori che si rivela particolarmente efficace e significativo, e pertanto potrebbe essere utilmente estensibile per indicarne tutta l’opera.
All’individuazione dei titoli partecipa spesso palesemente il sense of humor di cui è intriso anche il lavoro visivo; nel dominio del logos, l’esprit de finesse di Varisco si esprime prevalentemente nell’ inclinazione al gioco di parole, all’uso di omofonie, doppi sensi, libere associazioni, sia d’esempio Gnom One, Two, Three [1983].
Una spiccata componente ludica anima il fare di Varisco e il SE che è stato scelto come titolo della presente esposizione ne è principio e chiave: se fosse… introduce l’eventualità, l’ipotesi, indica l’irrompere di una congettura immaginaria, della possibilità di una costruzione alternativa. Il se[8] è il dispositivo dell’immaginazione per eccellenza, indicatore del regno del potenziale e dell’ipotetico, avverbio senza il quale nessuna trasformazione sarebbe possibile.
E che la trasformazione è il compito dell’arte, Varisco sembra saperlo intuitivamente dall’inizio. A posteriori senza sforzo si riconosce in operazioni lontane nel tempo la medesima matrice di pensiero che ancora oggi governa attivamente le sue realizzazioni. Sono particolarmente significative due esperienze ambientali con lo stesso titolo, entrambe dell’ottobre del 1969: Dilatazione spazio-temporale (con l’aggiunta della dicitura di un percorso nel lavoro di Como), pensate per due situazioni opposte, la prima al buio nel chiuso di un ambiente privato, la Galleria Schwarz a Milano, la seconda all’aperto, in piena luce in ambito cittadino
A Milano Varisco propone un ambiente, delimitato da alti pannelli di compensato, sghembi e disposti a formare false prospettive e a produrre sfasamenti dimensionali, nel quale invita i visitatori a inoltrarsi nel buio totale, guidati solo dal bollo di luce artificiale che raggiunge le pareti sconosciute di uno spazio improbabile.Il segno luminoso ottenuto con il proiettore, tramite il lento ruotare del motore, appare e scompare, si avvicina e si allontana, dilatando e restringendo lo spazio che si avverte incerto e straniante.
Una poesia scritta nell’aprile del 2008 dal titolo Où la lumiere se plie[9] descrive esattamente le percezioni ottiche e le sensazioni derivate dall’osservazione della meravigliosa instabilità dei fenomeni luminosi che sono alla base di questa realizzazione ambientale…
La seconda esperienza, più ludica, si svolge nell’ambito di Campo urbano a Como[10], manifestazione che, della sola durata di un giorno, ha preso forma come un insieme di happening distribuiti nel tessuto della città. Varisco aveva scelto di operare su una stretta via centrale di fronte al Duomo. Il suo obiettivo era quello di sottolineare la complessità della percezione plurisensoriale di un percorso abitudinario; ciò è avvenuto forzandone il cammino in un andamento a zig zag, condizionato dall’ingombro di grosse scatole di cartone accostate e sovrapposte che determinavano perfino l’impossibilità di sbocco al termine della via. Gli sbarramenti costringono i passanti ad una percorribilità dal tempo più che raddoppiato, causando opposte reazioni, comprese tra l’insofferenza e il divertimento nel percepire insolite sensazioni.
Questi due interventi, impertinenti, dicono con evidenza della necessità di sabotare le abitudini percettive dello spettatore per strapparlo a ogni forma di automatismo.
V’è un’immagine di Varisco che svela con precisione le sue intenzioni:<<[…] vorrei che questi segni fossero vivaci, guizzanti come i pesci rossi del vaso di vetro nel quadro di Matisse>>[11]. Questa immagine merita un approfondimento: <<parla prima di tutto di un’aspirazione al movimento, e ciò certamente non stupisce poiché Varisco è riconosciuta come una dei maestri indiscussi dell’Arte Cinetica e Programmata. Ma c’è di più: essa contiene un richiamo forte e preciso a determinati aspetti del movimento quali la velocità e l’imprevedibilità.
Il particolare del quadro di Matisse invita a una rêverie acquatica cui collabora l’esperienza vissuta: quando guardiamo i pesci nell’acqua, essi si muovono in modo tale per cui la loro sagoma risulta definitivamente imprendibile, tanto con le mani quanto con gli occhi, che comunque sono più veloci delle mani. E lo spazio intorno si rivela come una rete cangiante di eventi percettivi.
Usare l’immagine dei pesci nel vaso di Matisse equivale dunque a sottolineare la profonda e costituzionale precarietà dell’esperienza visiva, e inoltre è come dire che la forma è aperta, relativa, e tende a slittare continuamente altrove.>>[12]
Questa immagine sintetizza felicemente l’idea che regge l’opera di Varisco, l’idea dell’esperienza visiva come atto perennemente in fieri, e, dunque, il carattere necessariamente instabile e mobile dello spazio in cui immettere lo spettatore, come in un acquario.
Il contrattempo, la piega e la meraviglia
“And wonder to life’s commonplace clings”
Claude McKay, Nord e Sud, in Selected Poems, 1953
Un altro fattore che si accentua con l’andare del tempo è l’interesse nei confronti dell’imperfezione, dell’anomalia, della stravaganza che rompe gli schemi e ne smaglia l’ordine. Sempre attenta al funzionamento delle strutture e delle leggi convenzionali della percezione, Varisco è prevalentemente attratta dalle contraddizioni interne, dalla variabile che fuoriesce dal codice prefissato. Il contrattempo è capace di rigenerare la sensibilità, come è particolarmente evidente nel ciclo delle Extrapagine ( nuova)[dal 1974], che nascono direttamente dall’osservazione di una anomalia rara in campo tipografico, che esiste eppure non ha un nome perché non deve succedere; si tratta di quella piega fuori posto e fuori registro, che interrompe la regolare e normale fruizione di una pagina stampata. Mentre la piega[13] di per sé contiene e implica nuovi spazi, il ritmo risulta così irriverentemente interrotto e aperto dall’irrompere della diversità.
V’è una poesia scritta da Klee nel 1908 nel cui finale sembra di vedere riflesso il presagio del lavoro di Varisco, soprattutto dalle Extrapagine in poi: << La luce e le forme razionali/ sono in lotta, la luce/ le mette in movimento, piega/ angoli retti,/ curva parallele,/ costringe i cerchi dentro gli intervalli,/ rende l’intervallo attivo./ Da tutto questo l’inesauribile/ diversità.>>[14]
Anche il libro di Grazia Varisco edito da Peccolo nel 2008 dal titolo emblematico e psicanalitico: L’io diviso, pur essendo un libro d’artista vero e proprio, con tanto di disegni e poesie, è un’occasione di diversità, un altro modo di raccogliere riflessioni: qui sembra disegnare anche con le parole. Camminare a Milano del 1996 è notevole per l’ esprit de geometrie[15] su cui si basa, mentre Linea d’ombra/ 1[16] e Linea d’ombra/2[17] del 2001 si concentrano sul senso d’ambiguità tra presenza e assenza, sulla mobilità e sull’imprevisto. Le poesie indicate sembrano rappresentare le due anime dell’io diviso di Grazia: da un lato la geometria come corpo ideale, dall’altro la differenza, da difformità, la sorpresa come corpo reale.
Il finale di Sic transit, datata 25 dicembre 2003, ha la chiarezza di un programma, ancorché di natura non predeterminata ed empirica, dal sapore di un disegno riconosciuto soltanto a posteriori: << […] per me come mi conosco/ per me/ il precario/ è/ definitivo>>.
Quell’io diviso del titolo del libro sottolinea quindi la vocazione di Grazia che consiste principalmente nel dare spazio e fare agire appunto la diversità, l’alterità che abita ognuno e ogni cosa: nulla è perfettamente integro, tutto è sempre parzialmente altro, appena venato o addirittura carico di contraddizioni. Ogni cosa è divisa tra regimi opposti: ordine e disordine, progetto e caso, ecc…
Al senso unico, ideologico, Varisco preferisce senza dubbio le prospettive plurime -reali e fenomeniche-, la faglia, la sospensione che fa irrompere in ogni sistema il diverso, in ogni logica la consapevolezza della sua relatività.
Parlando del ricco corpus di annotazioni su carta, Varisco scrive: <<Ci sono […] appunti visivi nei quali mi rendo conto, con una specie di piccola emozione, che può essere difficile riconoscermi, riconoscere il mio modo di lavorare./ Agisce in queste esperienze un’altra me stessa, quella che prova nostalgia di spazi ai quali pensa di aver irrimediabilmente rinunciato e che raggiunge soltanto come zona di vacanza>>.[18]
L’io di Grazia è diviso poiché vivo e consapevole, quindi complesso e mai definitivo; quanto al suo lavoro, esso propone, per gli stessi motivi, un insieme di esperienze variabili e flessibili.
Nella recente serie dei Silenzi [2005] il vuoto e il pieno si definiscono a vicenda in modo mutevole, e in questa variabilità si riconosce facilmente una forma di fedeltà a se stessa, agli antichi assunti del gruppo T che si impegnava a destare lo spettatore dal suo abituale stato di contemplazione passiva per coinvolgerne spesso anche il corpo intero in un’esperienza predisposta e “guidata” solo in parte, e che lasciava un discreto margine alla scelta soggettiva. Ancora una volta, tanti anni dopo le Tavole magnetiche [1959-60], il lavoro di Varisco si propone con la preghiera di essere toccato, mosso, cambiato. Invita il pubblico: <<Faites vos jeux!>>. Si vedano le recenti Risonanze al tocco nuova[dal 2010].
I Silenzi nascono anch’essi da un caso fortuito, dalla resa di alcuni disegni da un’esposizione: che fare di tutti quei pass-partout se non montarli insieme e lasciarli parzialmente liberi di scorrere l’uno sull’altro?
Giovanni Maria Accame, studioso di limpida e acuta capacità di lettura dei fenomeni visuali, dedica al lavoro di Varisco diversi approfondimenti. La parola ricorrente nei suoi testi per definirne le opere non è né oggetto né scultura, bensì esperienza.[19]
Ogni opera è un dispositivo di segni che attivano lo spazio come leve e implicano lo spettatore in modo sostanziale.
Più di altri, alcuni lavori contengono indicazioni plurime e perfino contrastanti, si vedano in particolare la serie delle Disarticolazioni- Fraktur [1991/93] e un’opera come Sollevo/sollievo [2002], composta di elementi di rete di ferro che, sospesi a parete e diversamente orientati, sono spesso allestiti in modo che il collegamento tra loro sottolinei lo spazio attivo dell’angolo; mentre risultano altrimenti turbativi i più recenti nuovo half +half [dal 2008], come lame di piccole ghigliottine domestiche o strumenti indicatori di maree, misuratori del filo dell’acqua, composti da forme essenziali ma non minimali.
L’ironia di cui si è detto riguardo alla scelta dei titoli traspare con particolare evidenza come componente formante del lavoro stesso nel caso di OH! [1997], che consiste in due elementi in ferro, due forme vuote che, piatte e rotonde, piegate in modo da aderire al pavimento e alla parete, riproducono il vuoto che, muto, evoca l’esclamazione di stupore. La meraviglia è un fattore connaturato al modo di stare al mondo di Varisco ed è conseguentemente parte attiva del suo processo creativo, che partecipa largamente della capacità di stupire propria dell’infanzia.
L’artista tocca continuamente la realtà già data per farne esperienza come un bambino che rigira tra le mani un oggetto di cui non conosce la funzione. Ha mantenuto la libertà e la disinvoltura dell’infanzia mentre maneggia i materiali e la capacità di stupire mentre osserva i fenomeni sempre come se fosse la prima volta, attenta a rilevare l’imprevisto che rompe l’ordine e i sistemi chiusi.
Il lavoro si basa su riconoscere qualcosa quando si manifesta, sulla velocità dell’intuizione nel trovare e vedere l’imprevisto. Prendere come punti fermi l’errore, l’eccezione e il cambiamento non è una stravaganza ma una questione di realismo: c’è sempre una sorpresa nello svolgimento.
Angoli, libere associazioni e inizi
Il lavoro di Grazia indica con chiarezza tanto nell’intervallo, nel vuoto, nella separazione, quanto nel margine e nell’angolo[20] luoghi di energia particolare e di tensione al cambiamento. In modo efficace l’angolo rappresenta il luogo che apre e chiude lo spazio a dimensioni nuove. Significativamente alcune opere in cui l’angolo è sottolineato da un elemento lineare che lo attraversa hanno per titolo Scambi di tensione [1986], seguiti da una sigla, magari criptica per il grande pubblico ma trasparente per gli addetti ai lavori; ad esempio K.M., chiaro riferimento a Kasimir Malevic, così come in passato Varisco aveva dedicato a P.M., Piet Mondriaan, alcuni Reticoli frangibili [1968] che rappresentano già il presagio, lo abbiamo già detto, della centralità della relatività, della parzialità e del disturbo percettivi su cui verte decisamente l’opera a venire. Anche i lavori polimaterici [per lo più senza titolo, 1957/1959], eseguiti a Brera nell’aula di Funi al pomeriggio quasi di nascosto, sono già portatori di precise indicazioni di rottura del codice unico, danno già compiutamente corpo alla chiamata verso la negazione della univocità e della regolarità che indubbiamente annoiano.
La “figura” naturale più simile al lavoro di Varisco è, a mio avviso, quella della rete creata dalle trame del ragno, tanto per la sua aspirazione alla regolarità quanto per la sua organica imperfezione; nonostante questa sia l’immagine più immediatamente calzante per lo Spazio elastico di Gianni Colombo[21], che ne sembra quasi una puntuale traduzione artificiale, la vicinanza non guasta, anzi descrive un legame, una vicinanza professionale ed umana.
Il riferimento a Colombo, compagno di strada da sempre, esige un allargamento della focale sul contesto non tanto delle ricerche del gruppo T quanto sul clima culturale della città di Milano. Non è un caso se proprio a Milano si verificano alcune esperienze ambientali tra le più interessanti verso la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta; non ci si stanca mai di ricordarlo, un nuovo inizio, particolarmente sorprendente e fecondo, è stato indicato da Fontana, dalla sua ricerca spazialista che sborda dallo spazio convenzionale dell’arte fino a invadere lo spazio praticabile dell’osservatore, alterandolo profondamente e spalancandolo a nuove dimensioni; questo, non si dimentichi, è l’humus principale della formazione di Varisco, come di tanti altri giovani. E pensando al suo apprendistato, occorre puntualizzare che, come sostiene verosimilmente lei stessa, da Achille Funi, virtuoso pittore che fu suo maestro all’Accademia di Brera, assorbì una lezione di disciplina e di metodo, mentre Munari dovette esserle esempio di leggerezza.
Ma c’è anche forse qualcosa di più antico, una matrice lombarda, che affonda le sue radici in una concreta osservazione dei fenomeni naturali, trovarsi ad operare dentro a una lunga tradizione della sensibilità che Leonardo e il giovane Caravaggio contribuirono a creare.
Una fantasia da leggere per quello che è, come lo scorrere dei titoli di coda di un film, ovvero come paratesto, per dirlo con Genette
Grazia tiene la realtà sotto osservazione, come Palomar, protagonista dell’omonimo romanzo scritto da Calvino nel 1983, alter-ego dell’autore che sembra funzionare allo stesso modo anche per Varisco; non è certamente per pura combinazione che l’artista ha dedicato al personaggio letterario un lavoro rimasto alla fase di progetto.[22]
Il romanzo si apre con il protagonista sulla spiaggia mentre osserva le onde e vuole capirne il reale, non teorico, funzionamento. <<Siccome ciò che il signor Palomar intende fare in questo momento è semplicemente vedere un’onda, cioè cogliere tutte le sue componenti simultanee senza trascurarne nessuna, il suo sguardo si soffermerà sul movimento dell’acqua che batte sulla riva finché potrà registrare aspetti che non aveva colto prima; appena si accorgerà che le immagini si ripetono saprà d’aver visto tutto quel che voleva vedere e potrà smettere>>.[23]
Osservare le onde equivale a osservare le opere di Varisco, che obbligano a porre in allerta la vista e a mettere in gioco anche tutti gli altri sensi, insegnandoci a capire meglio che ogni esperienza, dal vedere al vivere, è una tensione continua verso la comprensione e la conoscenza. Ciò si verifica soltanto a patto di conservare la capacità di sorprendersi.
[1]Lo specchio, utilizzato da Varisco con parsimonia in quanto compare molto di rado e sempre in piccole porzioni, non svolge tanto la funzione di raddoppiare le immagini ma è immesso in un contesto in cui gioca il ruolo, come in questo caso, di suggerire una falsa presenza di una profondità, anche se inafferrabile e inaffidabile.
[2]Alberto Veca, Elogio dell’interrogativo, in [a cura di] Riccardo Zelatore, Gianfranco Pardi Grazia Varisco, catalogo della mostra, Annotazioni d’arte, Milano 2009, p.3
[3]Ibidem
[4]Giovanni Maria Accame, Grazia Varisco- L’apertura sull’inatteso, in Grazia Varisco 1958/2000, Maredarte, Bergamo 2001, p. 30.
[5]Salto nel vuoto/ 27 luglio 2005/ Pensare il vuoto/ dire il vuoto…/ come riuscire/ se non con il contrario….?!/ un “qualcosa” che contiene/ il vuoto/ che incornicia/ il vuoto/ che definisce/ il vuoto/ che racconta/ il vuoto/ che esalta/ il vuoto/ È un po’ come…/ pensare il silenzio/ dire il silenzio/ ascoltare il silenzio. / Per la mente/ un grande senza/ una provvisoria assenza/ una importante/ irrinunciabile “vacanza”/.
[6]Il potere del vuoto è sottolineato tra gli altri da Filiberto Menna, Ricerca dell’imprevisto, in “Paese Sera”, Roma, 20 luglio 1987.
[7]Federico Sardella, Istanti distanti, Fabbri contemporary art, Milano 2011
[8]Si ricordi Se una notte d’inverno un viaggiatore, romanzo scritto da Calvino nel 1979, la cui struttura è interamente costruita da nuovi inizi possibili.
[9]Pubblicata in Grazia Varisco, L’io diviso, Edizioni Roberto Peccolo, Livorno 2008. Nel buio della stanza…/ anche solo un bollo di chiarore/ che si infiltra dal foro della persiana/ muove nostalgie profonde/ di infanzia in vaste stanze/ di vacanze remote./ Si disegna tondo perfetto/ prima sullo stipite/ poi piano si piega/ si deforma sulle modanature della porta/passa lento si sdoppia sparisce/ poi riappare e incerto/ ondeggiando/ conta gli elemetni del calorifero/ si allunga obliquo pigro radente sulla superficie scabra della parete./ Da niente che era all’inizio/ solo un bollo/ ora invade lo spazio/ si espande anche nel vuoto/ diventa luce luce luce…”ed è subito giorno”.Come è evidente il verso finale è la parafrasi della poesia di Ungaretti, la più breve del novecento occidentale, capovolgendone il senso in chiave giocosa e ottimista.
[10][A cura di] Luciano Caramel, Campo urbano- Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana- Como 21 settembre 1969.
[11]Grazia Varisco, in Grazia Varisco 1958/2000, op. cit. , p. 91.
[12]Elisabetta Longari, Sotto il segno del cambiamento, catalogo della mostra, Galleria il Bulino, Roma, ottobre-dicembre 2008.
[13]Sul portato aritmico fortemente simbolico della piega si veda Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco [1988], trad. it. Einaudi, Torino 1990.
[14]Paul Klee, Poesie, Guanda, Milano, 1978, p. 191.
[15]Non passeggio rilassato/ non svago / solo un ripasso di geometria / applicata/ i miei lunghi tragitti a piedi. / Forzato il passo svelto/ scarto il taxi/ scatto al semaforo/ evito il rosso/ e i cateti / correggo la traiettoria/ divergo in diagonali/ ipotenuse più spedite. / temeraria tra le macchine/ d’anticipo rasento lo spigolo/ e scelgo la tangente/ della circolarità di pietra/ di un ingombro sporgente/ che da anni/ proprio/ non riesce/ a diventare aiuola.
[16]La mia ombra/ all’improvviso/ precipita/ a righe/ nell’abisso/ della grata del marciapiede. / Staccata da me/ sprofonda con sgomento./ Un mezzo passo/ e subito/ si piega ad angolo/ senza fatica, agile/ arrampica veloce/ risale facile/ con un balzo/ quasi acrobatico/ in pieno sole.
[17] Allungata a dismisura/ sul selciato/ attraversa la via/ l’ombra di me/ imprudente./ Una macchina poassa/ copre investe schiaccia/ quella parvenza di me/ senza spavento/ indifferente.
[18]Grazia Varisco, in Grazia Varisco 1958/2000, op. cit, p. 185.
[19]Giovanni Maria Accame, op. cit.
[20]Si veda la sottolineatura dell’angolo introdotta da Disarticolazioni del 1991/1995.
[21]Realizzato per la prima volta nel 1967, pone il visitatore in una situazione di disagio per il continuo cambiamento delle coordinate spaziali.
[22]Palomar, 1999, maquette di scultura all’aperto per Su logu de s’iscultura, Tortolì (Nuoro).
[23]Italo Calvino, Palomar, Einaudi, Torino 1983, p. 6. Tra l’altro sinoti che la scultura progettata per Tortolì è proprio un’onda blu, sinuosa come un serpente.
Giorgio Verzotti - 'Il compasso spaventato' in ``Se...`` catalogo della mostra personale, Museo della Permanente, Milano, 2012
In un testo critico del 1969 Gillo Dorfles, per definire l’opera di Grazia Varisco, adottava i termini “semplice” e “pregnante”: si tratta di più di quarant’anni fa, ma se quel testo fosse scritto oggi, quei termini si potrebbero usare ancora senza tema di errore.
Semplicità e pregnanza definiscono infatti l’essenza di tutto il lavoro dell’artista, in tutte le variegate direzioni intraprese. In quegli anni semplici erano i motori applicati alle opere cinetiche (addirittura elementari, dice ancora Dorfles), perché il movimento indotto doveva essere facilmente leggibile dall’osservatore. Se oggi si cimentasse con la tecnologia digitale, sicuramente Varisco la impiegherebbe per effetti altrettanto semplici, e perciò più ampiamente socializzabili.
Quello che interessava agli artisti dell’arte programmata (e a molti altri venuti dopo) era infatti la compartecipazione del fruitore in un’avventura percettiva che doveva essere comprensibile in tutte le sue fasi; in altri termini, per essere meglio apprezzata l’opera diventava “aperta” nel senso che chiedeva all’osservatore una sorta di verifica, trovava nella sua risposta un fondamento e possibilmente induceva in lui lo stimolo a esprimere altrettanta creatività.
Non sarà un caso che le correnti cinetiche e programmate di quegli anni vivano oggi una nuova attualità. Siamo abituati oggi a un’intrusione della tecnologia avanzata nell’arte visiva che si esprime principalmente nella video-arte, dove la tecnologia presuppone una passivizzazione del pubblico davanti alla spettacolarità dell’opera, in linea con lo spirito della società ben descritta da Guy Debord, e una trasformazione dell’artista nel portatore di un sapere iperspecialistico e perciò indiscutibile.
Per contro, l’uso “povero” della tecnica verso un’interpretazione fattiva dell’opera nonché la messa al bando di ogni specialismo contrassegnano le tendenze di quell’epoca come portatrici di valori altri, non omologabili allo spettacolo. Fortunatamente tali valori non sono stati sporadici nell’evoluzione dell’arte, anzi costituiscono ancora oggi un fronte “opposto” estremamente vitale. Grazia Varisco andrebbe dunque considerata come un’antesignana di questo fronte, e la sua opera come un esempio di radicalità e di coerenza. Non stupisce dunque trovare oggi, fra le prime opere di un giovane pittore francese, Nicolas Chardon, superfici metalliche su cui vengono applicati elementi provvisti di calamita che l’osservatore può liberamente spostare. Le Tavole magnetiche di Grazia Varisco funzionano proprio così, ma risalgono alla fine degli anni Cinquanta!
In quell’epoca la crisi dell’epopea informale (poetica che l’artista ha comunque attraversato ai suoi esordi), l’istanza cioè di una forte soggettività magnificata nella sua tragedia, comportava anche un’altrettanto decisa rivalutazione di una progettualità dimessa, anonima e per di più aperta all’interferenza dell’altro. Da centro propulsivo di un Io magniloquente l’opera diventa territorio di costruttività elementare e per di più zona neutra di confronto operativo.
Le Tavole magnetiche sono composte da superfici di medie dimensioni su cui trovano collocazione libera piccoli elementi quadrati bianchi, neri o nei colori primari, o ancora piccole semisfere che sono in realtà palline da ping-pong tagliate perfettamente a metà, a ribadire la semplicità e la disponibilità dei materiali presi dal quotidiano. Nel 1960 le superfici diventano anche griglie su cui si collocano brevi e sottili aste, che possono disporsi sulle due facce del supporto grazie alla sua trasparenza, a ribadire il principio di elementarità dell’opera, che però si può articolare per via di successive complicazioni…
Questa partecipazione fattuale dell’osservatore, invitato a mutare l’aspetto dell’opera secondo le possibilità che la sua struttura offre, tornerà più volte nelle successive stagioni creative dell’artista. Gli Spazi potenziali della metà degli anni Settanta sono composti da tre elementi: una superficie rettangolare di legno monocroma, una cornice di metallo con le stesse dimensioni e un’altra cornice di dimensioni ridotte della metà. L’opera è composta dall’insieme dei tre elementi contigui e/o sovrapposti tramite chiodi, ma le modalità dei loro accostamenti sono libere, dipendono da scelte soggettive. Le Extrapagine, realizzate dal 1974 in diversi materiali, compongono un ciclo di oggetti plastici aggettanti dal muro che richiamano la struttura del foglio piegato o del libro aperto con le pagine piegate in modo anomalo; questi aggetti sono per lo più mobili e lo spettatore li può aprire o chiudere, modificando l’estensione dell’opera stessa. Per venire ai lavori recentissimi, troviamo lo stesso principio nel ciclo dei Silenzi, insiemi di passepartout in cartone che invece di contenere un’immagine o un segno contengono se stessi, i più piccoli dentro i più grandi, e scorrono orizzontalmente mutando il loro aspetto. E le Risonaze al tocco mantengono ciò che il titolo promette: tavole metalliche recanti tagli che creano porzioni longitudinali leggermente aggettanti; un minimo tocco della mano le fa vibrare e risuonare.
Con le Tavole magnetiche viene comunque posto in essere lo spirito ludico di Varisco, che attraversa tutto il suo lavoro in quanto comporta un’istanza importante, quella secondo cui il gioco, lungi dall’essere un’attività meramente ricreativa, genera un sapere degno di confrontarsi con i “saperi alti”, con i “discorsi dell’ordine” cui l’artista ha sempre guardato con sospetto. Credo infatti che il suo lavoro possa essere letto integralmente in questa direzione, come tentativo di dimostrare che la conoscenza non si conquista solo attraverso la razionalità del pensiero progettante ma anche attraverso le gratificazioni della sensibilità e la messa in opera del pensiero intuitivo.
Gratificazione dovuta alla complessità degli stimoli è ciò che risente chi osserva il movimento interno degli Spazi in variazione e poi degli Schemi luminosi variabili, cicli a cui l’artista lavora dal 1961 e che sono diventati le sue opere più famose, create nel pieno delle ricerche di arte programmata. Resta integro il concetto già esplicitato nelle Tavole, quello di un’opera d’arte intesa come evento, come divenire che si svolge in un tempo reale. Porre il divenire nell’opera significa, allora come oggi, indebolire il suo statuto di identità, sottrarre centralità al soggetto che l’ha creata, in vista di una compartecipazione che per essere in questi casi puramente virtuale non è meno cogente, meno determinante nel costituire l’essenza dell’opera stessa.
Il principio che governa la costruzione interna di questi lavori è stato ben descritto da Giovanni Maria Accame: essi sono “costituiti da un contenitore illuminato da luce fissa, spesso blu, dove quinte orizzontali e verticali ruotando con velocità diverse generano continui mutamenti nei rapporti tra luce e ombra. La variabilità dell’immagine e la sua instabilità percettiva vengono poi ulteriormente sottolineate dallo schermo in vetro rigato che filtra la nostra visione delle immagini con il suo caratteristico effetto frangente”. Lo stesso Accame ci rende edotti di un importante aspetto insito nell’opera: la sua apertura, fin nella sua concezione “programmata”, al caso. Se l’opera, per l’artista, è studiata per “dilatare lo spettro della variazione e dilazionare il ripetersi dell’immagine”, il critico osserva che “nella dilatazione delle variazioni si inseriscono effetti inattesi, anche casuali, che nascono dallo svolgersi di un programma al quale l’effettivo accadimento si ritaglia spazi di autonomia”.1
I Reticoli frangibili della fine degli anni Sessanta invertono, in un certo senso, il rapporto postulato dagli Schemi luminosi perché ora l’opera è statica, essendo composta da tavole recanti segni colorati astratti (o elementi di metallo che simulano il mercurio, nei Mercuriali della fine degli anni Sessanta) cui sono sovrapposti vetri industriali lenticolari; questi, con le loro texture trasparenti, creano i “reticoli frangenti” che complicano la piena visibilità dei segni sottostanti. Ora, per percepirli nella loro reale conformazione, occorre muoversi, spostarsi fisicamente davanti all’opera, occorre che tutto il cinetismo sia assegnato all’osservatore, il quale dunque “dinamizza” l’opera verificandone il fondamento, osservando i segni colorati apparire e scomparire, vibrare a causa dei riflessi di luce, in un gioco cromatico e dinamico di forte impatto emotivo.
Come il gioco, così il caso: l’importanza attribuita a questi fattori vale come rimessa in discussione del sapere normativo, asseverativo, definitorio e univoco che si attribuisce alla razionalità. A loro volta gioco e caso pongono in rilievo e rendono operativo il ruolo della sensibilità, dell’emotività, nella costruzione del sapere. È come se l’artista, una volta identificato un sistema su cui intervenire, volesse poi mettere in luce le sue anomalie più che le sue regole costitutive, certa che l’anomalia in quanto tale apra a prospettive creative impreviste. E anche questo può essere inteso come un “controsapere” che Varisco ha frequentato costantemente, dagli esordi fino a oggi.
Il citato ciclo delle Extrapagine si può dire che si fondi sulle possibilità conoscitive dell’anomalia, come in una verifica di possibilità formali in un campo operativo considerato ineffettuale. La scienza del libro (“relativamente giovane, cinque secoli”… ) ha prodotto un sapere tecnico altamente specializzato e perfettamente organizzato, e tuttavia le anomalie, che non sono neanche previste, accadono: “Per me è l’ennesimo pretesto per una verifica dell’interferenza fra caso e programma; addirittura di quella parte di casualità che non essendo ipotizzata (esclusa a priori dall’esperienza esaminata) non ha nome.”2
Lo gnomone invece è un elemento della meridiana che nei tempi antichi misurava lo scorrere del tempo attraverso l’ombra che proiettava: misura, controllo, o illusione di controllare, attraverso la misurazione, il divenire in cui siamo calati. Grazia Varisco “usa” lo gnomone, la sua struttura e i concetti che esso porta con sé e li volge all’opposto, cioè a un’esperienza dell’ambiguità. Gli Gnomoni prendono vita a partire da una piega, un moto di innalzamento che sposta il piano verso la terza dimensione – e già in questo c’è un’idea trasgressiva – per diventare cornici in ferro smaltato di cui, appunto, alcuni lati si sollevano dalla parete (o da terra, nel caso di esiti monumentali come Gnom- one, two, three del 1984). Quando vengono applicati a parete, essi svolgono il ruolo che sembra essere il loro più proprio: la loro libera disposizione, molto in alto, molto in basso, quasi a terra, agli angoli, gli andamenti diagonali della loro ascesa verso l’alto (o discesa, dal soffitto in giù) dinamizzano lo spazio e ne complicano la percezione per via delle ombre che ciascuno di loro proietta tutto intorno. L’artista ne è pienamente consapevole. “Si produce qualcosa di insospettato, qualcosa che il gioco delle ombre proiettate dilata mutevolmente: l’effetto di sfasamento dello spazio si moltiplica, ‘implica’ lo spettatore nei suoi spostamenti. L’ambiguità che ne deriva prende, cattura, ‘intrappola’ lo sguardo, invita, vorrebbe condurre lo spettatore a un abbandono divertito o a un attento controllo visivo nell’uso della struttura.”3
Perché le possibilità si equivalgono: che si diverta abbandonandosi agli stimoli sensoriali, o che li riceva col distacco di chi li vuole analizzare, l’osservatore avrà comunque compiuto un’esperienza conoscitiva. Una conoscenza ottenuta non nonostante ma grazie all’ambiguità dei dati sottoposti alla percezione. Cos’è un triangolo: una superficie integra provvista di tre lati, o lo spazio vuoto che si disegna nell’accostamento di tre superfici metalliche, ciascuna piegata nel senso della lunghezza, a formare appunto tre angoli? Il Tri-angolo del 1988 funziona così: un’opera che si risolve nella domanda che pone e nel porne molte altre, relative alla psicologia della forma. E il corpo della scultura quale sarà, se accostiamo due ante in ferro che racchiudono il vuoto al loro interno? I Duetti della fine degli anni Ottanta sembrano proseguire nella decostruzione del pondus della scultura iniziata da Melotti, e proseguirla con meno levità strutturale ma con altrettanta se non maggiore ironia.
La piega che dava origine agli Gnomoni prosegue qui in opere susseguenti nella loro funzione di dispositivo di alleggerimento del corpo della scultura, che diventa un profilo metallico quasi bidimensionale e tramite la piegatura di una sua parte si adatta agli angoli delle pareti che occupa, o trova la sua propria base di appoggio nello spazio. Anche questo è un modo per giocare, mettere cioè in gioco l’ipotesi di un’identità forte, asseverativa (l’opera a tutto tondo), in favore di un intervento che sembra prendere vita a partire dalle condizioni fenomeniche dello spazio, dunque di un’identità relazionale. I titoli sono significativi: Disarticolazioni, Fraktur, come a insistere sulle possibilità formali, linguistiche, significanti, a partire da un’apparente negazione o interruzione del senso. O anche da un moto di spirito, come nelle forme circolari intitolate Oh!.
I Duetti, in ferro, raggiungono anche dimensioni monumentali, come quello realizzato negli spazi aperti presso Cagliari e a Morterone presso Lecco (Grande duetto, 1989), ma vivono in bilico su una sorta di paradosso visivo che sembra virtualmente alleggerirli. Due grandi quinte piegate ad angolo aprono e chiudono a un tempo lo spazio che definiscono nel loro accostamento, un vuoto che si fa nondimeno carico di dare senso all’opera, essendo la condizione di visibilità di ciò che il titolo indica, la dualità che cosi si realizza.
Questo senso del bilanciamento fra un positivo e un negativo, fra possibilità del linguaggio e l’assenza, rimanda al riferimento che l’artista fa esplicitamente al concetto di vuoto, un concetto che proviene dalle culture orientali e che si contrappone decisamente a quello invalso presso di noi, dove il vuoto viene “nientificato” e considerato come pura mancanza. Il vuoto cui si riferisce Varisco è vicino a quello di Yves Klein e anche di Lucio Fontana, è un principio energetico, energia in potenza, assoluta possibilità.
I Quadri comunicanti mettono alla prova sia le possibilità delle relazioni di senso poste dalla relazione fra vuoto e pieno, fra presenza e assenza, sia la nostra facoltà di districarci in una simile complessità. Osserviamo per esempio Quadri comunicanti “in” e Quadri comunicanti “out”: come in tutti gli esemplari di questa serie, i vuoti valgono quanto i pieni nella definizione dell’opera, e il gioco percettivo si fonda su questa equivalenza. Quattro cornici rettangolari sono collocate alla parete in alto, a destra, in basso e a sinistra in modo da figurare una circolarità. Sono poste in posizione diagonale, eccentrica, perciò dinamica. Sono cornici parzialmente vuote perché una loro porzione è occupata da una superficie monocroma; la collocazione delle cornici implica che le porzioni di piani si avvicinino (in basso nell’elemento superiore, a sinistra in quello posto a destra e cosi via) e avvicinandosi disegnino un quadrato, o per meglio dire l’indicazione di un quadrato. Questa nuova figura infatti si presenta necessariamente interrotta nella sua parte centrale, cioè nello spazio vuoto intorno a cui si riuniscono le cornici. Lì vediamo solo la parete, ma l’occhio è invitato a supplire con l’immaginazione al dato mancante e a vederlo, il quadrato, a renderlo “presente”, a percepirlo proprio in quanto mancanza.
Quadri comunicanti “out” rovescia i termini della relazione, presentando vuote le porzioni che prima erano piene e viceversa, e attribuendo al pieno la funzione di puro contorno, o per meglio dire di rendere visibile il vuoto che qui, ancor più decisamente che nei Duetti, origina il significato, stimola le funzioni percettive, fa funzionare il pensiero.
In un testo che accompagna le opere Angolazioni e Angoli (1986/87), (4) Varisco parla di un compasso che si spaventa e si inceppa, una bella immagine che può diventare l’emblema di tutta la sua ricerca.
Niente più a-priori geometrici nel creare la forma, ma piuttosto intuito e sensibilità, maggiormente legati alla sfera emotiva: meno rigorosa, mai univoca, la forma cosi diventa formazione, per dirla con Paul Klee, forma-azione, cioè forma viva, come il pensiero che genera
1Giovanni Maria Accame, Grazia Varisco 1958/2000, s.l., Maredarte, Bergamo, 2001, p. 14.
2 Grazia Varisco, Extrapagine 1974/1982, in Grazia Varisco 1958/2000, cit., p. 114.
3 Grazia Varisco, Gnom- one, two, three, four (1975/1982) – Implicazioni (1984), in Grazia Varisco 1958/2000, cit., p. 136.
4Grazia Varisco, Angolazione (1986/1987), in Grazia Varisco 1958/2000, cit., p. 146.
Frederik Schikowski - Interview with Grazia Varisco, Milan, 6th of May, 2013
FS= Frederik Schikowski
GV= Grazia Varisco
FS: Miss Varisco, what made you produce between 1959-62 artworks like the „Tavole magnetiche“, where the spectator is allowed to interact and to rearrange manually the constellation of the picture? Did you already know other comparable artworks?
GV: No. Back then I started to work with the other members of gruppo T on the condition of something that puts in relation time and space. And to realise that, we used movement, because in movement there is a relation from time to space. And with the movement you can try to resolve to play on a surface with opposite conditions like order and disorder, up and down or all other conditions. You can also understand better the relation between random and programm. The space is changing because the time that you need to handle the element on the surface is real time. This is another dimension in this work. Normally we are thinking about three dimensions: height, width and depth. But in this case, there is a fourth one, which is time.
FS: So your main idea was to introduce the aspects of time via movement in your artwork. But why didn’t you use a motor for this purpose, like other artists such as Jean Tinguely did?
GV: Back then, we didn’t know other artists working in this field. It just happened shortly after, within a few months or even days, that we met Bruno Munari and some other people who did similar attempts and to whom we than had relations. We didn’t even know, that they were interested in our work before.Though sometimes we got some help from the employes of my fathers boiler-company when we had to work f. ex. with iron, the background for the „Tavole magnetiche“ is the following: I remember a physics lesson at liceo artistico, that by moving a magnet under a page, on which are spread nails or other magnetic elements, you can change the surface by working under the surface. And by doing so you have movement. So using the manuel movement of the spectaotr had also to do with being students without any money and the need to work under simple conditions. In the beginning the question was just like „What can I do with a string like that?“ [points on „Tavola magnetica – lineare variabile“]. The very first works I did, where made out of poor things, with a square of cardboard or something like this. And the squares in the first „Tavole magnetiche“ were just cut-outs of Formica with a very colourful pattern. As I did not like to use this colour-patterns, I just covered them with black and yellow or black and red paint, to build simple situations with magnets. Like this the production was not expensive. And I was also able to make artworks based on co-involvement, on the participation of the spectator.
In fact there were several important things. First of all: not so much money. Than: something where you can put in relation time and space, and then to realise simple things in which the people were co-involved. These were the real interests.
FS: But all this political ideas – the participation of the spectator as an instrument to eliminate the hierarchy between artist and spectator f. ex. – were they also an aim for you in the beginning?
GV: No, not so much. But I remember, that it was close to the time, when everyone paid attention to this. And it was related to the period of the unsigned multiples, to the fact, that you don’t have to sign the artwork with a brush. In fact we worked with something not so much related to „romantic inspiration“. This was also the case for the titles, that were just descriptiv and without a personal sign, like f. ex. „Tavole magnetiche“ or „Schemi luminosi variabili“. And this was also something political: to try to levell the relationship to the spectator. Also in the „Tavole magnetiche“ there is something of this mind: I am not the artist of an already fixed artwork. I call you „Fruitore“ (Benutzer/Verbraucher) and I ask you as spectator to do as I do. And the simple shapes that I have chosen, like squares, bars or demispheres are just line, form and volume. There is nothing emotional about them. It’s just related with something that I like to give to you and you have to play and to decide, exactly as I do. I think that is the precondition to this political condition.
FS: Your use of universals shapes like squares and the objectiv-descriptiv titles – all this is a parallel to concrete art. Was there any influence from italian Movimento Arte Concreta (MAC) or from Swiss „Konkrete Kunst“, like from Max Bill f. ex.?
GV: Yeah, sure. But all this, knowing the work of Munari f. ex., started to affect me just from our first exhibitions on, certainly not before. Because before we were not well informed about it, you know. We came from the Academia di Brera and there we had a real traditional teacher: Achille Funi. Just later on I appreciated him a lot, because he educated us to work with discipline, which is something you have to learn. Together with Funi, we had a very good teacher in history of art, Guido Ballo. We were mainly studying classical art history, but he opened our mind. He animated us to walk and look around in our city and to be open to other experiences like music and cinema. He was a good teacher for this reason. And I remember that I saw works of Paul Klee and of Suprematism because of him – something, that was unknown to us. There existed no publications about it, and the few were poorly made. There was a text by Sigfried Giedion that I consulted at the end of Accademia for my thesis on “The Value of Sign in Kandinsky, Klee and Wols” but it was quite difficult to get further information about the historical avantguard.
FS: Do you remember, how people reacted in front of your „Tavole magnetiche“? Where they irritated, because they had to do something actively? Or did they refuse to accept it as art because of the fact, that they were allowed to change something?
GV: Yes, sure, this is normaly the case. But in the beginning it was different. First we had to put a cardboard that said „Si prega di toccare“ on the wall. But the people who were used to visit exhibitions in gallerys read automatically „Si prega di non toccare“, although it was not written there! And so they were doing nothing. So we had to explain them personally that they have to touch the artworks. But after some months and some exhibitions, their attitude had changed completly and suddenly they tried to find out, how the magnets were fixed on the elements. So often after the exhibtions all the works came back broken [laughing]. To oblige not to touch and to oblige to touch – both can have negative effects on the artwork [laughing]. The serious and well known critics that we appreciated, like Gillo Dorfles, Guido Ballo, Umbro Apollonio or Carlo Belloli and some others, they were attentiv and really carefull and also encouraging us. But the normal critics said, that this was just „giochetti“ (Spielerei). Not „PLAY!“ in a good sense, like it is for me. For them it was „just play“. They called us „Quelli delle macchinete“ or „Quelli del giochini“ with a light tone of disrespect.
FS: How came that you replaced in the early 60s the spectator-participant through a motor in your „Schemi luminosi variabili“? And why did you come back to the variable artworks via manual spectator-participation with your „Spazi potenziali“ in 1973-75?
GV: The participation in the „Tavole magnetiche“ is especially a participation of the body, you have to touch. In the motorised kinetic works, I realised, that it was another kind of participation: it’s a minds participation. While you watch them, you are feeling something. I remember that my sister said, that in some of the „Schemi luminosi variabili“ she was a little bit in trouble, while in some others she felt more relaxed. Also you are always waiting a minute or a half for the repetition of the pattern. So in this case the participation of the spectator is more related to his mind and to his feeling. This is the difference.
FS: But why did you come back to the body-participation with the „Spazi potenziali“?
GV: You know: there were also no motors in the previous „Mercuriali“ and in the optical variations of the „Reticoli frangibili“. I arrived to the end of the 60s feeling, that all this was too much material. Really, I was feeling almost sick and it was necessary for me to rest. In this period I tried to reduce, to use less things, to take out, more and more. And during two years I started different experiences. One was: take out completly everything, the name was „Assenza“ (Abwesenheit). And then in the same period there was also „Spazi potenziali“. It started all around 1972/73. In the „Spazi potenziali“ I tried to have more emotions, trying to go with my mind. But I felt immidiatly, that my intention was still the perfect shape. But there was something that came out of the order, and this was „Random“. Random, that is going to disturb. And then I worked on this condition, because I was interested in understanding this phenomenon. And this is something that changed my mind. In the „Spazi potenziali“ f. ex. if you want you can have a well balanced, perfect right angled constellation. But just by hanging the frame on another nail of the wood-table you can change completly the ortogonal condition. With the weight of the frame even the wood-table itself can change its position, and the whole object hangs obliquly on the wall.
FS: Some „Tavole magnetiche“ have a grid, which leads to a semi- or whole transparency of the playing field. Are they just supposed to hang on the wall, or could they also stand freely in the room, to play with and look at them from both sides?
GV: Yeah, the latter! The idea to work with a grid came because of an exhibition in Lissone, that I did. The metall-back-boards of the normal „Tavole magnetiche“ are bevelled. So for the transport I put the elements on the backside to protect them. Doing so I noticed, that it would be nice to have a transparent surface, as the situation, where the elements from one side are related to the elements from the other side, was really interesting. So I began to use the grid. The one I prefere is the one which is the most transparent, but this material was really hard to find.
FS: Often in the „Tavole magnetiche“ with the grid, the frame is very special. It has two little feet which reminds a little bit the shape of a wash board. What’s the reason for that?
GV: You know why? Because of the grid I thought of a web („tela“), and so I thought of a loom as a – back then – typical feminine object. Although normally it was round, these special frames I made were related to that. One f. ex. is titled „Imparaticcio al telaio“. The word „Imparaticcio“, today almost obsolete, means a kind of exercise to sew or to embroider on a long piece of cloth. It is a diminutive for a small work of young girls in the school. I never liked the category of „female artists“, I was always trying to have an ironic position in this domain.
FS: You with gruppo T were working quite early in the field of multiples. Your first one was „Sferisterio semidoppio“: a little play object with divided ping-pong-balls, movable on a mirrored ground in a box made out of wood and perspex. It was presented together with other variable multiples by gruppo T in December 1960 in Danese-gallery in Milano. How came?
GV: Munari and Enzo Mari were already doing multiples for Danese. And I remember that Munari already knew what we were trying to do, like me with my „Tavole Magnetiche“. And so he told us, that if we were ready, we could do something for Christmas in Danese shop. And so we did it and we conglutinated all this Multiples ten times in a few days [laughing].
The important thing for us was to understand, that it doesn’t need paint, oil and brush for an artwork. Everything, every material can be used. And this awareness was really new and rich. Because then we found something. Every material, also industrially produced, was potentially welcome, like rubber-strip f. ex. I also used some other strange things [laughing]. In the company of my dad the employes worked with iron. If you cut iron, a little spiral of metall is a byproduct, in fact a really terrible thing, as you can cut yourself. But I put a lot of them on a magnet [laughing]. Now we don’t have them anymore, probably I threw them all away, but 1960 in Galleria S. Matteo in Genova they were shown. And I still have photos of others, that used the fabric from inside of a jacket or the hairnets of my mother and my grandmothers [laughing]. You know, I threw them away. It is so strange, because the later works seem so normal, while in the early days they were kind of weird.
FS: By producing multiples did you also pursue the social aim of making art affordable for everyone and not only for the rich elite?
GV: Illusion, illusion…
FS: So was the multiple-idea a big disapointment for you, the other artists of gruppo T and Nouvelle Tendance?
GV: Yes, in a way. Also because immediately after we realised this multiples, the art market was interested in the potential of them. Doing so they destroyed our ideals. Suddenly the first numbers of the multiples had more value than the later ones and so on. Within a few years we were dissapointed of that. Yes it was a disappointment, but in my life, and not only in art, it is not the only one. But you know, fortunately life constantly offers alternate situations, ups and downs. Just like the opposit conditions that you can create with my „Tavole magnetiche“ – which leads us back to the beginning of our talk.
Francesco Tedeschi - 'L’esercizio della diagonale. Dinamica della costruzione', in ``Grazia Varisco. Mit rastlosem Blick``, catalogo della mostra personale, Museum Ritter, Waldenbuch, 2013
Nei primi anni Sessanta Grazia Varisco si impone tra i protagonisti italiani di quella tendenza al rinnovamento dei mezzi artistici partecipe di un concerto internazionale di proposte che si sono espresse attraverso l’adozione di forme e tecniche tese a includere la luce e il movimento come fattori costitutivi dell’opera. Udo Kultermann individuava i tratti salienti di una “nuova concezione della pittura” nell’“azione reciproca del quadro e dell’organismo umano”, dove il dinamismo è fatto costitutivo dell’opera[1]. Tale “concezione” è ben espressa nella mostra, pressoché omonima, che ha luogo nella galleria Azimut di Milano, e che vede la partecipazione, con Castellani e Manzoni, animatori della stessa galleria, di Yves Klein, Kilian Breier, Oskar Holweck, Heinz Mack, Almir Mavignier, e parallelamente nella serie di mostre Miriorama, che presentano l’attività dei componenti del Gruppo T, tra i quali Grazia Varisco. In stretta relazione con il contesto artistico europeo, quelle iniziative si inseriscono nella “nuova tendenza”, in cui si configurava un nuovo rapporto con mezzi tecnologici, per quanto artigianali, e con nuove idee, fondate su relazioni con la scienza che non si riducevano all’ambito di una applicazione di principi logici e razionali, ma si avvalevano della valenza critica che i rapporti tra regola e caso suggeriscono, nelle sperimentazioni artistiche più aperte. Gli elementi innovativi o rivoluzionari si appoggiavano, come sempre avviene e come si può riconoscere con una certa distanza temporale, su basi e spunti innervati in una tradizione, magari al momento non riconosciuta, che può essere anche di lunga data.
L’opera di Grazia Varisco si è poi sviluppata con continuità e con intuizioni, transitando dalla realizzazione di opere destinate a riformulazioni da parte dei fruitori (le Tavole magnetiche), ad altre fondate su meccanismi essenziali, destinati a creare meraviglia (gli Schermi luminosi variabili) o a dimostrare la relazione tra la forma e il movimento ottico-percettivo, per passare a composizioni che in vario modo analizzano e riproducono gli scarti che un’irregolarità, uno spostamento, una variazione propongono alla visione, come li si può desumere nella realtà esteriore, naturale o urbana, o nella produzione artigianale o industriale. Dalle variazioni della superficie alla tridimensionalità vera e propria, attraverso l’uso di materiali e tecniche differenti, Varisco ha dato vita dagli anni Sessanta-Settanta in poi, a soluzioni formali differenti, che hanno a che fare con temi e procedimenti quali la piega, l’ombra, l’equilibrio temporaneo. Tutte forme o immagini dell’impermanenza, nelle quali si ritrova la radice di una poetica aperta e attiva, dove il dare e il ricevere si integrano. Affiorano e si combinano diversamente, nella definizione progettuale e nella realizzazione delle sue opere, che sono quasi sempre concepite per serie o nuclei conseguenti, i fattori costitutivi del suo lavoro, che sono da riconoscersi nella necessaria partecipazione della mano e dell’intelligenza alla creazione; nel concepire la forma come parte integrante dello spazio, che non può essere chiuso e determinato, ma sempre in divenire; nel cogliere la relazione fra le ipotesi formali e le loro possibili applicazioni.
Tra i diversi elementi “iconografici”, uno dei più ricorrenti è la diagonale, motivo nel quale si possono riassumere diversi aspetti di una tensione al dinamismo che Varisco interpreta a suo modo, ricevendo possibili spunti da una tradizione figurativa di eredità più o meno lontana.
Oltre che forma dell’irregolarità, essa può valere come segno di riappropriazione dello spazio. Negli insediamenti fondati su terreni collinari, come la maggior parte dei centri della Toscana o dell’Umbria, per riferirsi all’Italia, ma lo stesso si potrebbe dire di tante città medievali sorte altrove, le costruzioni seguono l’andamento del terreno, adeguandosi alle proprietà specifiche del territorio. Ne derivano edifici e strutture urbane che si fondano sull’irregolarità e su differenze di livello che sono base del complemento armonico. Rispetto a tale modellazione del paesaggio, altri interventi dell’uomo tendono a regolarizzare la natura, producendo un ordine imposto dall’esterno. Le lance che Paolo Uccello ha messo in evidenza, nelle due celebri scene di battaglia da lui rappresentate, diventano il segno di un intervento misuratore e trasformatore della realtà, che oggi le pale eoliche, inserite nel medesimo paesaggio, sembrano evocare. Al di là di questa immagine metaforica, apparentemente azzardata, la linea diagonale suggerisce in sé un dinamismo, che le teorie della percezione hanno messo in luce[2].
Nell’opera di Grazia Varisco la diagonale è elemento destinato a indirizzare la visione e a rappresentare la componente di energia e di dinamismo che è inerente alle strutturazioni aperte e in divenire. La si ritrova nelle immagini di presentazione delle Tavole magnetiche, affiora in qualche caso nelle variazioni degli “schermi luminosi variabili”, diventa determinante nella sequenza dello Spazio potenziale, degli Extrapagina, degli Gnomoni, delle Angolazioni e delle Disarticolazioni, fino a ritrovarsi nella serie dei “Quadri comunicanti”. Non sempre si può indicare come elemento tensivo principale, ma la sua presenza è determinante, come linea (ma anche ombra o volume) che qualifica il senso di una variazione fondata sulla proiezione dinamica.
Non è forse un caso che nel futurismo le “linee-forza” avessero andamento prevalentemente diagonale, indirizzato a combinare forze centrifughe e centripete, dove la diagonale, rispetto all’orizzontale e al verticale, contribuisce a esplicitare una poetica del dinamismo che può avere valenze simboliche[3]. Il futurismo era tra le componenti culturali alle quali gli artisti delle tendenze cinetiche e programmate indirettamente attingevano, come è stato in qualche caso sottolineato[4]. Senza guardare solo a quel movimento, che ha avviato attenzioni per strumenti extrapittorici e per una poetica del dinamismo che in qualche modo è rimasta attiva nella cultura artistica italiana del Novecento (come si può riconoscere nella volontà, propria di Lucio Fontana, di superare la chiusura del quadro finito e di aspirare a una dimensione spaziale nella quale il movimento è un fenomeno diretto alla creazione della forma), Varisco ha perseguito, dalle premesse chiaramente individuate nella fase di distacco dalle materie dell’informale, un’ambizione al dinamismo interno (e complementare) che nei suoi lavori ha trovato modo di riproporsi in un continuo “spingersi verso”, “tendere a”, che la linea diagonale, soprattutto quando si mostra nella sua direzione di lettura da sinistra verso destra suggerisce (per le culture, come la nostra, nella quale la scrittura segue tale andamento). Una disposizione diagonale, predominante nella lezione del costruttivismo russo, per esempio, che instaura una possibilità dinamica e visiva che dalle diverse tipologie di astrattismo trova nelle soluzioni di un’arte che va ai fondamenti della visione e della percezione, come quella di Grazia Varisco, una fusione fra la forma e il suo significato intrinseco.
[1] “La dinamica che poteva già diventare tema di un quadro, ma soltanto in alcuni punti fondamentali, è diventata adesso la forma stessa del quadro.”, U. Kultermann, Una nuova concezione di pittura, “Azimuth”, a cura di E. Castellani e B. Manzoni, n. 2, 1960, s. p. (“Das Dynamysche, das in mehreren Ansätzen schon zum Bildthema werden konne, ist erst jetzt ‘zur eigenlichen Form des Bildes Selbst’ (Heinz Mack)…” (Eine Neue Konzeption in der Malerei).
[2] Rudolf Arnheim analizza il carattere dinamico della diagonale considerando la rappresentazione pittorica dei mulini a vento. Cfr. R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano, 1974…
[3] Maurizio Calvesi ha indicato nella “spirale” una delle qualità specifiche del linguaggio figurativo di Boccioni, individuandone la forza espressiva in alcune delle sue opere topiche, cfr. M. Calvesi, Un Boccioni ritrovato e il tema dialettico della spirale, “Paragone”, luglio-settembre 1976, pp. 236-265, poi in M. Calvesi, E. Coen, Umberto Boccioni… Electa, Milano, 1982. Dal tema della spirale si può tornare alla diagonale come struttura di movimento, anche in opere come Carica di lancieri di Boccioni o Lancieri italiani al galoppo di Severini, evocatrici delle figure di Paolo Uccello, prima che Carrà veda in Paolo Uccello un modello per recuperare una tradizione di “ordine” e di struttura.
[4] Dice Guido Ballo, presentando una mostra di Grazia Varisco nel 1972: “Coglie dunque, con effetti di provocazione ottica ma anche psichica, il senso di una dinamica esistenziale, dove tutto appare, si annulla e risorge provvisorio: idea del tempo inafferrabile. Le premesse sono futuriste, ma in uno sviluppo che fa superare il quadro, il dipinto, per l’esaltazione del più puro movimento di luci colorate…”, G. Ballo, Grazia Varisco, cat. mostra personale, Galleria del Naviglio, Milano, 1972.
Francesca Pola - 'Empatia e interferenza. Archetipi di relazione nell’opera di Grazia Varisco', catalogo della mostra personale, A arte Invernizzi, Milano, 2014
L’opera di Grazia Varisco ha sempre teso, sin dai suoi esordi, a creare il massimo coinvolgimento possibile dell’osservatore, in termini insieme psichici e sensoriali, attraverso un linguaggio visivo di essenzialità e semplicità estreme. Questa forza comunicativa del suo lavoro si fonda su un’immediatezza di percezione che viene da definire empatica: come se l’artista avesse sempre ricercato nella realtà quelle forme e quelle dinamiche che appartengono alla nostra vita originaria (quelli che potremmo definire i nostri archetipi relazionali), e avesse voluto tradurle in autonome e dialoganti presenze plastico / cromatiche, tese a stabilire con chi le osserva una relazione diretta e istantanea.
Ecco perché ogni suo lavoro ci si presenta come una fusione straordinaria, eppure spontanea e naturale, di razionale ed intuitivo, esatto ed evocativo, sicuro ed allusivo: attraverso l’esperienza artistica, Varisco ci invita a mettere continuamente in gioco le nostre convenzioni e certezze, i nostri modelli relazionali acquisiti, per dischiuderci uno spazio possibile di coinvolgimento primario, una sintonia parlante, proponendoci immagini “nuove” del mondo, che non ne sono la descrizione o la rappresentazione a posteriori, ma una ri-creazione attiva come spazio di azione.
Grazia Varisco è da annoverare tra i protagonisti, dalla fine degli anni Cinquanta, di una generazione cruciale per i destini dell’arte italiana ed europea, tesa al superamento della visione soggettiva e individualista caratteristica della stagione Informale. Una generazione alla quale si deve la costruzione consapevole di una nuova relazione tra artista e società, oggetto creativo e mondo: secondo coordinate di riduzione formale e materica che fossero in grado di cancellare qualsiasi residuo di emotività negativa e di solipsismo espressivo. Si tratta di un passaggio fondamentale nella ricostituzione di una nuova identità culturale europea dopo la tragedia della seconda guerra mondiale; del quale, finalmente, negli ultimi decenni si va progressivamente sempre più affermando la centralità tra le ricerche artistiche internazionali, con una particolare attenzione e un crescente interesse da parte del pubblico e degli studiosi per il contesto italiano. Un’attenzione e un interesse che sono indici inequivocabili della straordinaria attualità delle indagini creative di questi autori, così come auspicio e segnale dell’opportunità di procedere a indagini monografiche dettagliate e documentate, tese a enucleare sempre più le specificità dei singoli, chiaramente ormai al di là di appartenenze – documentate o presunte – a gruppi e movimenti. Come accade, nel caso di Varisco, rispetto alla sua partecipazione storicamente fondamentale alle vicende del Gruppo T, con Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo e Gabriele Devecchi: équipe sperimentale composta di personalità fortissime, che dà vita ad alcune tra le realizzazioni più avanzate dell’epoca nell’ambito delle ricerche cinetico-programmate internazionali dei primi anni Sessanta.
Per alcuni autori di quella stagione straordinaria, che come Varisco non si sono mai accontentati di esaurire le proprie indagini creative in una dimensione laboratoriale collettiva (pur nel riconoscimento di dialoghi, sintonie e parallelismi coevi), né tantomeno di riprodurre e ripresentare propri stilemi acquisiti, ma hanno invece sempre teso ad innovare dall’interno il proprio linguaggio secondo coordinate fortemente individuate, l’attualità delle loro ricerche appare oggi ancora più flagrante. In questo contesto di elaborazioni, il lavoro di Varisco occupa una posizione particolare non solo per la ricchezza delle diramazioni secondo le quali, dopo quella pionieristica e seminale fase iniziale, si è sviluppato, ma anche e soprattutto per la specificità insieme unica e decisiva di certe indagini che lo hanno con continuità caratterizzato. La vicenda storico-artistica della sua opera ci appare oggi, a uno sguardo retrospettivo, come una sorta di “rivoluzione permanente”, che si è dipanata attraverso i decenni, nel continuo tentativo di enucleare e approfondire in modo sempre differente temi e problematiche che si ripropongono oggi come centrali nella ricerca artistica: come ad esempio la relazione tra oggetto, spazialità e temporalità; oppure la composizione dialettica di razionale e intuitivo, materiale e immateriale; o ancora la inscindibilità di sensoriale e mentale come connotato peculiare dell’esperienza artistica.
La mostra ideata da Grazia Varisco per A arte Invernizzi, in una sua attenta “misurazione” e “percorrenza” diretta dello spazio stesso della galleria, è prova tangibile e concreta di questa innegabile attualità della sua opera: sia nel sorprendente persistere significante dei suoi lavori storici, presentati come introduzione e contrappunto alle opere recenti, sia nelle realizzazioni cronologicamente più vicine (alcune delle quali qui esposte per la prima volta), che nella loro sovrana ed esatta leggerezza cromo-spaziale si dispiegano in una freschezza di strettissima contemporaneità.
Filo conduttore di tutti questi lavori è quella che potremmo definire la questione cruciale dell’indagine artistica di Varisco: vale a dire, la volontà di catturare e tradurre in presenze aperte, attive, quell’energia in movimento sottesa a ogni evento nel suo accadere, a ogni forma nel suo divenire, a ogni esperienza nel suo farsi. Il suo lavoro ha sempre ricercato nel dialogo con l’osservatore questa immediatezza coinvolgente, intesa come partecipazione al farsi dell’immagine, per dare vita a un’opera parlante, in costante ricerca di una sintonia, di una relazione. Proprio la partecipazione – che è insieme ottica, più estesamente sensoriale e al contempo psicologica – è l’elemento chiave nell’opera di Varisco. Il suo lavoro non è infatti mai pensato come oggetto autosufficiente e indipendente dalla sua fruizione, ma viene costantemente elaborato come sfida psicologica e spaziale alle convenzioni delle nostre relazioni consuete.
La dimensione relazionale e interattiva dell’opera di Varisco è evidente già dai suoi primi lavori maturi, come le Tavole magnetiche pensate per essere riconfigurate dall’intervento dell’osservatore: la sua ricerca si pone in una prospettiva per così dire “tattile”, molto particolare all’interno della “cultura del progetto” caratteristica della Milano degli anni Sessanta, generata dall’incontro tra arte, architettura, industria, urbanistica, design. Per Varisco infatti l’adozione di meccanismi prototecnologici e cinetici non ha, se non solo marginalmente e per riflesso, il valore di un tentativo di ridefinizione dello statuto sociale dell’azione artistica: è piuttosto lo strumento di un coinvolgimento umano – psichico e fisico insieme – che vuole produrre una partecipazione attiva da parte dello spettatore. La sua è quindi sempre stata una forma di progettualità che ha assunto una forma elementare, aperta, anomala, passibile di sviluppi imprevisti, nell’incontro con le singole situazioni di espressione. Rispetto ad altre ricerche cosiddette “programmate”, quella di Varisco può essere certamente considerata una prospettiva meno strettamente ed esclusivamente legata alla prospettiva di un “sistema” sotteso alla costruzione e all’articolazione fisica dell’opera, pur dagli esiti inattesi nel suo momento di applicazione. Per quanto metodologicamente rigoroso, il suo lavoro ha infatti sempre consapevolmente e intenzionalmente ricercato lo scarto della casualità come componente intrinseca e non accidentale, connaturata allo stesso farsi opera dell’idea, nell’intuitività conoscitiva generata dalla sensibilità. Questo primato della dimensione di esperienza ha caratterizzato nel corso dei decenni l’intero percorso di Varisco, e spiega anche il suo costante interesse per materiali semplici ed essenziali, quali la luce stessa (artificiale o naturale), i vetri industriali, il ferro, l’alluminio, il cartone: un punto fondamentale per comprendere la forza di un linguaggio che non si è mai affidato alle lusinghe della tecnica e della materia ma si è sempre fondato esclusivamente sulla vitalità della propria articolazione situazionale.
Gli Schemi luminosi variabili (esposti alla storica mostra itinerante Arte programmata del 1962) sono oggetti ad animazione elettromeccanica in cui l’immagine intermittente è costituita da tratti luminosi che appaiono e scompaiono alternativamente sulla superficie, generati dall’interferenza tra dischi rotanti, nei quali sono intagliate trame che lasciano filtrare la luce. In essi Varisco accentua il proprio interesse focalizzato per la scansione temporale, per l’evento momentaneo che configura inedite possibilità d’immagine all’interno di un percorso solo in potenza predeterminato: un interesse che ritornerà nella sua opera successiva come attenzione progressivamente sempre più accentuata per la deroga al sistema, per la contraddizione e le potenzialità espressive di questo elemento di scarto rispetto alle aspettative. Nei Reticoli frangibili sviluppati dopo il 1965, una superficie di vetro industriale lenticolare si sovrappone a una serie di elementi geometrici astratti dipinti sulla tavola sottostante (oppure a inserti di metallo che simulano il mercurio, negli analoghi Mercuriali), dando vita a risultati imprevedibili nella loro interferenza, che produce immagini differenti a seconda dell’orientamento e del punto di vista. In queste opere, l’artista cerca di catturare l’istante dal quale emergono continuamente variazioni e permutazioni di un’articolazione di segni che si rinnova ad ogni incontro: “Le maglie del vetro interferiscono con i segni dilatandoli, assottigliandoli, occultandoli. Vorrei che questi segni fossero vivaci, guizzanti come i pesci rossi del vaso di vetro nel quadro di Matisse”.[1] Questo richiamo a una leggerezza del fare e dell’esperire è per Varisco il risultato di un abbandono consapevole alle regole mutevoli di un gioco che è l’esistenza stessa, nel rapporto autentico e diretto con una proposizione artistica che è interrogazione e messa in questione di categorie in apparenza conosciute (lo spazio e il tempo), attraverso la scoperta di quegli scarti minimi del reale che il suo lavoro individua, acquisisce e offre alla nostra esperienza possibile. Gli Spazi potenziali, risalenti alla metà degli anni Settanta, sono costituiti da tavole monocrome di legno, liberamente combinate con cornici metalliche che ne duplicano il volume (intero o dimezzato): accentuano ulteriormente la dimensione dell’interferenza come componente fondante dell’opera, aggiungendo un ulteriore elemento cruciale per le ricerche a venire, quello del vuoto.
Fulcro spaziale che connette i due piani della mostra è la sequenza di Gnomoni articolati attorno alla scala centrale, in cui l’artista materializza il vuoto come spazio del pensiero e l’ombra come trascorrere del tempo (“gnomone” è il nome dell’asta della meridiana). Scrive l’artista in merito a questa tipologia di lavori, avviata alla metà degli anni Ottanta: “Il rigore delle convenzioni della geometria è alterato, reso quasi indecifrabile per effetto della semplice operazione del piegare, lungo il perimetro di un quadrilatero, una porzione dei lati. (…) Si produce qualcosa di insospettato, qualcosa che il gioco delle ombre proiettate dilata mutevolmente: l’effetto di sfasamento dello spazio si moltiplica, ‘implica’ lo spettatore nei suoi spostamenti. (…) Per me, questo lavoro è l’occasione per un’esperienza insolita dello spazio fisico, dello spazio mentale, del suo esistere, del suo possibile dilatarsi, del suo essere disponibile al mio respiro e al mio sguardo, del suo accogliere il mio muovermi”.[2] Geometrico e al contempo intenzionalmente non decifrabile nella sua origine ortogonale, questo intervento spaziale assume qui una dimensione ascensionale che ne accentua l’anomalia, in rimandi e contrapposizioni fondate sull’utilizzo della “piegatura” della materia (avviato nel 1974 con le Extrapagine), come momento di apertura verso la terza dimensione in tensioni divergenti e come istante di spaesamento sensoriale e disagio percettivo.
In questo e nei successivi lavori si chiarisce ulteriormente come il tema del tempo e del movimento siano declinati in modo del tutto personale da Varisco: non secondo suggestioni meccaniche, ma come un cinetismo del pensiero e del mentale, secondo una variabilità e instabilità percettiva che è anomalia della forma sempre attivata dall’idea. E insieme si conferma come la sua non sia mai una geometria costruita a tavolino, quanto una visione geometrica della situazione, intesa nel senso etimologico e primario di collocazione volutamente non definitiva, in cui pieghe e vibrazioni sono parte integrante dell’esperienza: “Chi guarda provoca con il suo spostarsi la modificazione continua del campo visivo, determinando e vivendo una situazione in cui notevole peso ha la stessa virtualità di spazi originata e dalla piegatura degli elementi-struttura e dalle loro proiezioni sui piani, in una realtà tutta topologica che non può prescindere dalla flagranza della fruizione, che non si dà in astratto, fuori del registro della contingenza”.[3] Il lavoro di Varisco propone una esperienza della geometria come spazio dell’anomalia e dello scarto, come forma costantemente calata in situazione: per quanto rigorosa e attenta, non è mai misurata e disegnata asetticamente, ma sempre messa in relazione al luogo del suo possibile accadere nella percezione umana.
Interferenza ed empatia, archetipi di relazione nell’opera di Varisco, a cui si possono far corrispondere in concreto ombra e situazione, anomalia ed esperienza, sono le coordinate secondo cui si muovono anche i lavori più recenti presentati nella mostra milanese, come le Risonanze al tocco del 2010. Idealmente quanto liberamente ispirate alle inversioni spaziali dei Negativi / Positivi di Bruno Munari (autore che nella sua prospettiva multidisciplinare e ludica è da sempre punto di riferimento fondamentale per l’opera di Varisco), invitano l’osservatore a un “gioco” di interazione elementare: sono superfici di alluminio verniciato, in cui sono incise traiettorie ortogonali e forme geometriche che aprono lo spazio alla vibrazione del tocco, in un momento di esperienza sensoriale che stimoli insieme vista, tatto ed udito. Un fondamento relazionale esteso del dialogo oppositivo di pieno e vuoto, inteso non in termini puramente formali ma risolto in una tensione attiva, nella creazione di uno spazio intermedio e composito di incontro, che richiama anche il Grande duetto del 1989, nel Museo d’Arte Contemporanea all’aperto di Morterone.
Quadri comunicanti del 2011 ripropone il tema del vuoto come elemento di lettura dello spazio attraverso il tempo: è costituito da una serie di cornici vuote di ferro, liberamente articolate in successione, che sono in parte occupate da forme piene di alluminio, tagliate secondo una ideale linea di orizzonte. La suggestione è quella di un “galleggiamento” immobile di un liquido idealmente calato e solidificato in queste forme: un evento momentaneo che configura inedite possibilità di immagine. La suggestione si ritrova e amplifica spazialmente nel “negativo” dei vuoti residuali, materializzati nelle forme dei Comunicanti in acciaio e Comunicanti in azzurro, questi ultimi ancora variati dal rivestimento cromatico che allude a una ulteriore, diversa leggerezza. Sono esposti per la prima volta in questa personale, come il nuovo ciclo dei Ventilati in cartone vegetale, che ripropone in immagine l’esperienza dell’allineamento ed il disagio percettivo della variabilità delle forme regolari, come se la materia di forma rettangolare fosse appesa ad un filo e mossa dal vento. Così l’artista descrive la genesi di questi ultimi lavori: “Rivedo nel ricordo infantile un bucato steso, irrigidito dal gelo in forme ghiacciate sghembe. Avverto il disturbo della ortogonalità contraddetta, anzi smentita nell’allineamento degli elementi scomposti forse appena mossi da un colpo di vento rigido”.[4] Un tessuto steso e raggelato, reso astratto e solido: il pensiero creativo di Varisco distilla la memoria della realtà in pura forma. L’artista traduce l’esperienza del mondo in una geometria che ha voluto, per queste opere, definire “jamming”, facendo riferimento a “qualcosa che disturba e va sempre storto, una interferenza che si sovrappone alla normalità”:[5] interferenza comunicativa e addensamento, sovrapposizione mal controllata e compressione, dove il rigore della razionalità è come scompigliato da un colpo di vento, e nell’istante del suo sfasamento viene fissato dal pensiero in queste polarità bicrome vibranti. Valori come “leggerezza” ed “esattezza” sono tra quelli che, nelle sue Lezioni americane, Italo Calvino consegnava nel 1985 alla creatività del terzo millennio, quali indici preziosi di continuità e rinnovata attualità. In queste immagini, il pensiero sottile e avvincente di Grazia Varisco continua a correre sul filo teso di quello stesso futuro.
[1] Grazia Varisco, Reticoli frangibili – Mercuriali 1965/1971. I pesci rossi, 1970, in Giovanni Maria Accame, Grazia Varisco. 1958/2000, Maredarte, Bergamo 2001, p. 91.
[2] Grazia Varisco, Implicazioni, 1984, in Accame, op. cit., p. 136.
[3] Luciano Caramel, Grazia nel paese delle meraviglie, in Grazia Varisco 1988-1992, catalogo della mostra, Galleria Milano, Milano, 1992, s.i.p.
[4] Grazia Varisco, testimonianza a chi scrive, 22 agosto 2014.
[5] Ibidem.
Federico Sardella - 'Trappole mentali', intervista, Flash Art n.318, Ottobre-Novembre 2014
Federico Sardella: Il titolo dei tuoi più recenti lavori è Ventilati. A tal proposito scrivi: “Rivedo nel ricordo infantile un bucato steso, irrigidito dal gelo in forme ghiacciate sghembe. Avverto il disturbo della ortogonalità contraddetta, anzi smentita nell’allineamento degli elementi scomposti, forse appena mossi da un colpo di vento rigido”.
Grazia Varisco: Si, ho voluto provare a “mettere in forma” una nuova esperienza. Sembra un’operazione molto semplice, invece il risolverla è stato più complicato del previsto. Un rompicapo, un togli e aggiungi per ottenere l’inclinazione voluta, ancora una volta per precisare un allineamento che arriva dalle precedenti esperienze dei Quadri comunicanti.
FS: Un po’ tutti i tuoi lavori prevedono questo tipo di approccio, come se tu scegliessi di complicare una situazione apparentemente semplice. La piega è in sé un’operazione semplice, che diventa un ostacolo nel momento in cui la devi riprodurre, svolgere o simulare…
GV: Qui, in questo lavoro, torno alla piega, ma in questo caso la piega è simulata, è solo suggerita in una rigidità assoluta (formalmente lontanissima dall’indagine di Deleuze che accosta la piega al concetto di Barocco). O mi sorprendo barocca, forse compiaciuta?!
FS: Il termine Barocco, in origine, era usato per descrivere le perle irregolari, dalla rotondità imperfetta, portatrici di errore. Quale è il tuo rapporto con l’errore, con lo scarto?
GV: Qui mi ritrovo a mio agio: l’imperfezione, lo scarto, l’errore e le sue conseguenze, l’errore come fenomeno (proprio che viene fuori), che dipende anche dal caso, come elemento che diverge dalla norma… già dalla prima metà degli anni Settanta, per esempio nelle Extrapagine, mi sono occupata di questi argomenti. Nel mio lavoro, il rigore di base viene alterato, o smentito, o messo in dubbio. Il risultato si sottrae alla leggibilità scontata di una geometria che spera di essere ventilata da un soffio di poesia.
FS: Se di fonte di ispirazione vogliamo parlare, a questo punto possiamo dire che per te la quotidianità è un inesauribile riserva di suggestioni. Sarebbe interessante capire in che modo il tuo sguardo accarezza la quotidianità ed in che modo si sposta su essa, per reinterpretarla, svelarla, raccontarla.
GV: Il titolo “Lo sguardo inquieto”, che ho scelto per la mia recente mostra al Museo Ritter a Baldenbuch, si riferisce alla presa di coscienza della costante stimolazione percettiva che avverto nel fare quotidiano. Come dici, sono proprio suggestioni che appaiono, non sei certo di acchiapparle, non è scontato il trattenerle. A volte mi accorgo che devono depositarsi, sedimentare, solidificarsi in un concentrato di pensiero / immagine… a volte per un lungo tempo, fino a che diventa irrinunciabile la prova, che magari parte proprio da quei “quattro panni stesi ghiacciati”… di settanta anni fa.
FS: Come erano, dunque, quei panni stesi che hanno dato vita ai Ventilati, esposti negli spazi di A arte Studio Invernizzi, a Milano, fino al 5 novembre?
GV: Eravamo “sfollati” durante la guerra. Mia madre o una delle donne di casa, mentre scende dal solaio, sulla scala di legno, regge o meglio ci mostra una maglia che era stata stesa, ormai irrigidita dal gelo. Ci dissero di non toccarla, altrimenti si sarebbe rotta. La sorpresa di questa strana forma sghemba, provvisoriamente rigida, si è come inamidata nella mia memoria.
FS: Per assurdo, una immagine di tanti anni fa abita i tuoi lavori più recenti, come se solo oggi, con estrema libertà, tu fossi riuscita a darle forma. Questa poetica del quotidiano, oggi apertamente dichiarata, inizialmente, anche nelle letture critiche sul tuo fare, non è stata particolarmente approfondita, per un tuo pudore forse, o per offrire un’interpretazione più elevata…
GV: Non so, forse una forma di reticenza ad esporsi con l’avanzare dell’età cede, si allenta, trova il modo di giustificarsi e di indulgere a qualcosa di intimo, che ci aiuta a comunicare, a trasmettere meglio. Gli esempi che adotto sono: il cassetto che si incastra e si apre / chiude con difficoltà, la tazzina inclinata sopra l’altra che per via del manico sotto lo scorrere dell’acqua si riempie e travasa da una parte…
FS: Non sono gli accadimenti in sé ad essere rilevanti, ma il modo in cui tu li osservi e li vivi, partecipi al loro svolgimento… Cercare l’anomalia, ciò che è storto o sghembo, dipende da un tuo bisogno di esattezza?
GV: Mi sorprende e mi incuriosisce tutto quello che è anomalo. Provo piacere nel constatare che l’anomalia esiste. Che il caso è nel programma e che può essere avvertito come tale, come un’eventualità nella prassi. L’anomalia non mi disturba, anzi lavoro sul disturbo che crea e sul senso di attesa che suscita in me. Nell’attesa, nel durante, è implicito il rapporto spazio / tempo, che è oggetto della mia ricerca già in atto dalle premesse del Gruppo T. Osservare ciò che accade, il divenire verificato dall’interazione dei sensi, il controllare la partecipazione del corpo agli eventi percettivi. Dalle Tavole magnetiche agli Schemi luminosi variabili agli Spazi potenziali, dalle Extrapagine agli Gnomoni, fino ai più recenti Quadri comunicanti e Risonanza al tocco, esamino ed invito ad un controllo delle esperienze che metto in gioco, sulla regolarità, l’anomalia e l’ambiguità. Il processo, così pensato, tende a risolversi in un’operazione attiva e stimolante.
FS: L’intervento del quale parli è anche quello del pubblico, invitato a partecipare direttamente per completare l’opera. Nelle prime esposizioni con il Gruppo T l’invito esplicito a toccare le opere, a modificarle, a spostare gli elementi che le componevano, era addirittura evidenziato dalla dicitura: “si prega di toccare”…
GV: In tutte le esperienze appena nominate è ribadito l’invito alla partecipazione attiva: scorro, sposto, sfoglio, apro e sollecito il tatto anche solo con un tocco.
FS: Chiacchierando del passato e del presente, non posso non pensare a come inizialmente, dalla fine degli anni Cinquanta e per tutti i Sessanta, forse la mancanza di esperienza delle cose della vita ti abbia portato ad indagarle con piglio analitico, da ricercatore. Anche i titoli delle opere di allora risentono di questa sorta di schematicismo…
GV: Ne ho accennato prima, parlando del riserbo che con l’età si ammorbidisce, si smussa. I titoli delle opere ne sono una conseguenza: i lavori vecchi, ora considerati storici, hanno titoli molto schematici e tecnici. In seguito e ora più che mai, con disinvoltura, mi concedo il piacere di titoli più evocativi, che tendono a completare l’opera e il pensiero che ha guidato la prova nella sua realizzazione.
FS: I tuoi lavori e le tue sculture hanno spesso a che fare con il vuoto, con l’assenza, la mancanza…
GV: Le mie sculture, che stento a definire tali, per me sono trappole mentali; non vorrei che fossero ingombri nello spazio ma presenze sottratte alla corporeità, che al contrario tendono ad ospitare lo spazio fisico e mentale.
Michele Robecchi - ``Grazia Varisco, if..., 1960-2015``, catalogo della mostra, Cortesi Gallery, Londra, 2015
Grazia Varisco – Se
Se vi offro delle probabilità, non chiedetemi di più.
– Platone
Nato a inizio anni Sessanta in risposta alla rigidità dettata dall’Informale, e sulla spinta propulsoria di realtà intermedie come Azimuth e Le Mouvement, le “Nuove Tendenze”, il movimento che prese eventualmente corpo a Zagabria come punto di raccolta di espressioni parallele come l’arte cinetica, l’arte concreta e l’arte programmata, si manifestò subito come qualcosa di più che un semplice avvicendamento generazionale. Il desiderio di rompere con la rigidità degli schemi del passato in favore di un’arte in movimento dove lo spazio e il tempo sono intesi come forze attive con cui fare i conti, aveva infatti inaspettatamente trovato terreno fertile in luoghi culturalmente e geograficamente disparati. In anni in cui le comunicazioni planetarie erano impresa ardua a causa di ovvi limiti tecnologici ma anche di un residuo clima di diffidenza ereditato come conseguenza della grande guerra, parve subito straordinario che in aree reciprocamente remote come il Sud America, la Mitteleuropa o gli Stati Uniti, operassero artisti che all’insaputa uno dell’altro coltivavano preoccupazioni analoghe sulla direzione e il perché dell’arte. Eppure quel movimento, che mai come nessun altro prima chiamava in causa lo spettatore in quanto partecipante attivo alla percezione e per certi versi alla definizione dell’opera, innescando quindi un rapporto di complicità che almeno sulla carta avrebbe dovuto sancirne una popolarità universale, non ebbe vita facile. In sorprendente contrasto con la maggior parte dei dibattiti che ruotano regolarmente intorno all’arte contemporanea, dove si evoca spesso un ritorno alla manualità davanti a costruzioni di natura eccessivamente concettuale, le Nuove Tendenze furono recepite in certi ambiti come un astuto escamotage progettato per intrattenere un pubblico pigro o comunque restio all’idea di confrontarsi con il terremoto estetico generato dalle avanguardie storiche. William C. Seitz, l’ideatore di “The Responsive Eye”, la prima uscita in scala museale delle Nuove Tendenze sul palcoscenico newyorkese, ricorda come una larga fetta della critica cercò di liquidare la mostra come un concentrato di troppa tecnica e poca arte.[1] Si tratta di obiezioni strane per un movimento che, facendosi forza di interlocutori storici come Theo Van Doesburg e Piet Mondriaan e cavalcando l’entusiasmo scientifico in corso, si prefiggeva come obiettivo quello di riscoprire l’arte come opportunità di scoperta, evoluzione e educazione visiva. In linea con la maggior parte dei movimenti e delle scuole di pensiero che scandiscono il cammino dell’arte, un tipico ostacolo che neanche le Nuove Tendenze riuscirono a saltare, fu caso mai quello di volersi arrogare lo statuto di risposta definitiva a una serie di problemi la cui fluidità richiede al contrario un continuo aggiornamento e allargamento di vedute. Questo assolutismo, che abbinato alla visione romantica dell’artista a metà tra il demiurgo e esploratore di realtà sconosciute imperante ai tempi, dispone della forza sufficiente per condurre verso un binario morto anche la più scintillante delle intuizioni, non ha però mai riguardato Grazia Varisco, un’artista che in oltre cinquant’anni di percorso ha sempre fatto del dubbio il suo cavallo di battaglia. Non il dubbio, è bene precisare, inteso come indecisione o esitazione, perché il lavoro di Varisco è caratterizzato da un equilibrio e una forza la cui autorità si esprime inequivocabilmente in qualunque contesto. Ciò che si verifica è invece un’accettazione serena e matura del dubbio, e quindi dell’ignoto, come elementi di una realtà da cui è inutile cercare di sottrarsi. Equazioni come ordine/disordine e caso/programma diventano assi portanti di una ricerca che anche nei momenti più felici non mancano mai di ricordare come qualsiasi risultato sia soggetto alle leggi dell’imprevedibilità. Tali premesse, che possono essere riassunte come “certezza dell’incertezza”, e che ammantano il lavoro di un’affascinante vulnerabilità, sono tangibili già nei primi anni Sessanta, quando Varisco, fresca diplomata all’Accademia di Brera di Milano sotto la guida di Achille Funi, e abbandonate le prime indagini nel mondo del polimaterico,[2] presenta Schema luminoso variabile (1961-2) presso l’Atelier Olivetti. Costituito da due parti speculari collegate da una banda di legno e illuminati dall’esterno grazie a una lampada neon a forma circolare, Schema luminoso variabile è uno dei primi esempi di arte generativa, dove il movimento rotatorio e la sovrapposizione degli schermi sono sfruttati per produrre continue variazioni e ripetizioni, catturando l’attenzione incondizionata dello spettatore.
Sempre in quegli anni, Varisco, su invito di Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo e Gabriele De Vecchi, si unisce al Gruppo T, un collettivo nato nelle aule di Brera interessato all’idea di variabilità (dove T sta per “Tempo”), partecipando alla sesta mostra/manifesto, chiamata, come tutte quelle precedenti, “Miriorama”[3].
Varisco ricorda come durante quelle prime prove, per rendere più esplicite le intenzioni del gruppo, le opere esposte erano spesso accompagnate dal cartello “si prega di toccare”, un invito contro-intuitivo che superate le timidezze iniziali sfociava spesso in esuberanze inattese, ma che diventava un requisito necessario per mantenere fede al concetto di un’arte multisensoriale orientata verso il coinvolgimento di tutti e cinque i sensi. Come già detto, questa interattività, soprattutto nella sua versione ludica, era occasionalmente vista con sospetto dagli ambienti accademici più reazionari, ma fu subito accolta con entusiasmo dalle voci più ricettive della critica militante, tra cui Guido Ballo, Gillo Dorfles, e soprattutto Augusto Morello, che pochi anni dopo, in occasione della prima personale di Varisco alla galleria Vismara Arte, sottolineò l’ambiguità interna del suo lavoro, soffermandosi su come “il valore lirico venisse trovato nell’immagine e cercato nella macchina”.[4] L’ambiguità, al pari del caso, viene dunque riconosciuta subito come parte integrante dell’opera, diventandone una parte integrante e non dimenticabile la cui mera esistenza è sufficiente per mettere in gioco il lavoro successivo.
Qui occorre fare un salto in avanti e arrivare al 2010, l’anno in cui Varisco realizza Risonanza al tocco, un lavoro che a distanza di decenni da quelle prime esperienze conferma come questi principi siano sopravvissuti aggiornandosi alle necessità formali e ai naturali sviluppi dell’analisi della percezione. Elegantemente monocromo, Risonanza al tocco si ispira a un ritratto di Igor Stravinskij (una passione di Varisco e non a caso un altro innovatore all’interno dei parametri della tradizione), dove il maestro tiene l’orecchio con la mano destra con espressione vivace nel tentativo di amplificare naturalmente qualcosa che sta destando la sua curiosità. L’immagine muta, e dunque ammantata di mistero, rimanda alla trasmissione di un’informazione sonora e al momento in cui questa viaggia – una condizione temporale sospesa che lo spettatore è invitato a percorrere attivando un’opera la cui vibrazione sembra implicitamente dare una risposta all’eterno quesito sulle qualità visive del suono.
Varisco, che pure non ama articolare verbalmente le motivazioni e i processi che informano il suo lavoro, ha definito questa continuità “Filo rosso”, il leggendario ponte che unisce anima e corpo nella letteratura orientale nonché una metafora che ha trovato una rappresentazione spaziale in Quadri Comunicanti Filo Rosso (2008), dove una riga retta rossa mantiene la traiettoria nonostante la minaccia di smentita proveniente della disposizione casuale del gruppo di quadrilateri che unisce. Ispirato al principio fisico dei vasi comunicanti secondo cui in presenza di gravità un campo conservativo mantiene un valore potenziale costante, la serie Quadri Comunicanti (ne esistono diverse varianti) sintetizza perfettamente lo spirito del lavoro di Varisco. Un intervento formalmente minimale, che si distingue prevalentemente per l’esaltazione del vuoto, riesce comunque nell’intento di bloccare la superficie su cui si manifesta, fornendo simultaneamente uno spaccato di continuità e instabilità. Questo gioco di scarti e sovrapposizioni, che è già visibile in lavori precedenti come Spazio potenziale (1973) e soprattutto la serie Gnomone (una trasposizione tridimensionale del medesimo concetto basata sull’idea dell’ombra dell’asta della meridiana come elemento intangibile ma determinante che ne esalta ulteriormente il movimento), compone quindi un autoritratto mentale, dove l’arte produce pensiero intenso come energia in perenne movimento, con tutte le variabili, le contraddizioni del caso.
Proprio l’idea di scarto si lega a un episodio particolare che illustra meglio di altri la filosofia di Varisco, e riguarda il libro, quell’oggetto che una volta stampato e rilegato si presenta al mondo in una veste apparentemente risolta e esente da possibili interferenze. Anche se oggi capita sempre meno frequentemente, non era raro fino a qualche hanno fa che anche un prodotto editoriale finito subisse incidenti inaspettati in fase di stampa o durante il taglio della carta. Come ricorda Varisco, “Nel ’74, quando ho cominciato a interessarmi a queste cose, ho chiesto agli addetti ai lavori come fosse definito questo accadimento, questo incidente. Risposta: ‘Niente, non ha nome, non deve capitare’”[5]. La scoperta che una complicazione tecnica plausibile debba soccombere a una mentalità talmente negazionista al punto da non avere ufficialmente un nome non è sfuggita all’artista, spingendola a impossessarsi di questa entità esistente/non esistente e di utilizzarla come ulteriore impalcatura teorica per verificare la relazione tra programmazione e casualità.
Nonostante il pubblico inglese abbia già avuto modo di vedere il lavoro di Grazia Varisco in occasione di collettive come “Art in Motion” (Royal College of Art, 1964) o più recentemente in “Arte Italiana 1960/1982” (Hayward Gallery, 1982) organizzata da Caroline Tisdall, “Se” è la sua prima personale a Londra. In una di quelle coincidenze inspiegabili ma che per seguire una logica cara a Varisco, forse vanno viste senza cercare spiegazioni, un destino simile è toccato anche al suo ex-compagno di Gruppo T Gianni Colombo, presente in concomitanza e purtroppo in maniera postuma alla Galleria Robilant & Voena con “The Body & The Space 1959-1980”. Vedere entrambe le mostre certamente non permette di ricreare il clima di sperimentazione e entusiasmo di quelle giornate milanesi di inizio anni Sessanta, ma resta comunque un’opportunità unica per riflettere sui percorsi paralleli di due artisti che hanno scritto pagine essenziali della storia dell’arte contemporanea italiana. In questo gioco di certezze e incertezze, una sicurezza è che il filo rosso di Grazia Varisco, contrariamente a quello visibile all’interno dei Quadri Comunicanti, ha un inizio ma non ha una fine. Prevedere cosa porterà esattamente in futuro è difficile, ma sappiamo per certo che ci saranno ulteriori probabilità per comprendere meglio il mondo che ci circonda.
[1] Vedere William C. Seitz, The Responsive Eye, Museum of Modern Art, New York, 1965. Per le Nuove Tendenze vedere invece Matko Meštrović e Radoslav Putar, Nove Tendencije, Muzej Suvremene Umjetnosti, Zagreb, 1961.
[2] Una probabile conseguenza del clima post-Futurista instaurato negli anni Cinquanta da Funi stesso e da Enrico Prampolini, padre dell’arte polimaterica, che fu insegnante e per breve tempo anche direttore della scuola.
[3] Traducibile come “Visione eterna”, dal greco “Orao” (vedere) e “myrio” (quantità indefinibile).
[4] Augusto Morello, Grazia Varisco, Vismara Arte, Milano, 1966.
[5] Grazia Varisco, “Extrapagine 1974-1982”, in Grazia Varisco 58/2000, Edizioni Maredarte, Bergamo, 2001.
Claudio Cerritelli - 'Filo rosso e altre congiunzioni', in ``Grazia Varisco. Filo rosso 1960/2015``, catalogo della mostra personale, Cortesi gallery, Lugano, 2015
Filo rosso è il titolo scelto da Grazia Varisco per accompagnare le ricerche comunicanti proposte in questa mostra, opere distanti nel tempo poste in relazione attraverso la risonanza tra le loro diverse soglie percettive.
Al di là della stretta osservanza cronologica, molteplici versanti operativi entrano in questa sintesi spaziale per ricreare “nel presente” il campo di congiunzione tra i fondamenti del passato e nuove aperture immaginative.
Il ritmo spaziale dell’esposizione propone potenzialità correlate tra valori di superficie e virtualità tridimensionali, perimetri misurabili e tensioni imprevedibili, fermezze strutturali e slittamenti percettivi, metodologie persistenti e deviazioni dalle regole costruttive.
Per Varisco la funzione dell’arte risponde al suo stesso processo di attivazione cognitiva, ha un significato indipendente da vincoli che non siano quelli predisposti per sollecitare la complicità sinestetica dello spettatore, scambio di tensioni che implicano nuove interrogazioni dello spazio, orizzonti d’attesa dell’ignoto.
La selezione delle opere restituisce in modo esemplare le diverse diramazioni di ricerca, dai giochi magnetici dell’iniziale fase programmatica alle costanti alterazioni delle regole visuali che segnano l’identità mutevole dell’artista dagli anni Sessanta fino all’attualità.
In ogni fase del percorso Varisco esplora l’essenza dinamica dell’immagine, usa diversi mezzi per modificare la sensibilità acquisita, strumenti operativi che non escludono mai il dubbio e l’inquietudine, amplificando la percezione di ciò che abitualmente accade e rimane inosservato. La disciplina del vedere è un sentire profondo che scardina le metriche plausibili, sconfessa ogni dato programmato in nome del caso, cerca nuove apparizioni dentro la presenza ambivalente dell’assenza.
Lo sguardo è sospeso nel vuoto, cerca ambivalenze e contrasti, raggiunge un provvisorio appagamento quando è sollevato dal torpore abitudinario e proiettato verso stati di rivelazione, interferenze tra reale e virtuale, zone di confine dove la possibilità dell’invisibile sta nell’ambiguità del visibile.
Le “tavole magnetiche (1959) giocano sulle opposte rispondenze degli elementi mobili, disposti a calamita su tavole di ferro, oggetti da spostare, basati su elementari polarità dialettiche: ordine-disordine, pieno vuoto, aperto-chiuso, simmetrico-asimmetrico. Il movimento alterno delle forme geometriche e dei segmenti lineari determina la complessità cromatica del campo percettivo, predisposto alla sollecitazione diretta del fruitore, partecipe della tensione pluridimensionale dell’opera-operazione.
Mentre sulle tavole di ferro Varisco dispone oggetti, segmenti, linee e stimoli cromatici in relazione reciproca e permutabile, sulle reti trasparenti e semitrasparenti la posizione degli elementi è visibilmente sospesa. Concentrata, da un lato, sulle sovrapposizioni dei piani geometrici, articolata, dall’altro, con sottili fasce e filamenti metallici che oscillano curvilinei tra valori tattili e ombre virtuali, fluenze spaziali sospinte dalle forze imprevedibili del caso. Gli oggetti cinetici luminosi sono schemi variabili continui che funzionano programmaticamente all’infinito, essenziale è l’energia dinamica che alterna luce e oscurità con seduttiva ipnosi elettrica, sottoponendo a costante verifica la capacità di elaborazione ricettiva dell’osservatore.
L’incidenza delle variazioni prosegue in altri oggetti cinetici (1963-64), il divenire ottico-percettivo nasce dall’interferenza -a dovuta distanza- dell’immagine retrostante con le maglie strutturali del vetro industriale. I valori transitori luminescenti sono connessi alle possibilità combinatorie degli effetti positivi-negativi, fluidità percettive afferenti agli schemi primari che guidano il sistematico articolarsi delle vibrazioni.
Le movenze ottico-cinetiche si accentuano nei “reticoli frangibili” e nei “mercuriali” (1965-1971), sperimentazioni d’insolita magia visuale che lasciano affiorare dalle strutture infrante il flusso provvisorio dell’evento percettivo, la sorpresa di qualcosa che si verifica mentre lo si guarda.
Un decisivo spostamento avviene rispetto alle implicazioni scientifiche della percezione, non più esclusive e impositive, ma disposte a essere turbate da slanci d’emozione, impulsi incontrollabili, variabili impreviste, ritmi scomposti per captare altri esiti rispetto al campo programmato.
I segni si cancellano, diventano sgranati e sottili, perdono la perfezione del timbro cromatico, sembrano labili tracce di rigorosa memoria suprematista.
Il carattere provvisorio delle pulsazioni cromatiche riguarda anche le liquide densità mercuriali dei frammenti d’acciaio disseminati sulla superficie secondo differenti aggregazioni, immagini transitorie di una verità percettiva legata al differente peso alle strutture morfologiche.
Alle anomalie dei piani sovrapposti e slittanti rimandano gli “spazi potenziali” (1973-75), costruiti attraverso sfasature e devianze legate alla forza dinamica delle fuori-uscite, energie intuitive che interferiscono con l’assetto geometrico dei telai portanti. Laterali e trasversali sono i movimenti di fuga oltre il confine stabilito, volontà asimmetrica di rapportare strutture piene e vuote, perimetri reali e virtuali, misure che vagano nelle ambivalenze oblique del possibile. La disposizione regolare dei chiodi sulle tavole di legno invita a immaginare molteplici ipotesi strutturali come ludico manifestarsi ludico del pensiero progettuale.
Lo sguardo insegue lo spazio indefinito, s’insinua tra i reticoli del tempo, sviluppa variazioni che intercorrono dal grado zero del “tutto nero” alle interferenze sensoriali del colore. Si tratta di forme apparentemente dissestate, in realtà calibrate attraverso sovrapposizioni di piani sfasati in puntuale relazione, lievi profondità delle superiici vuote, perimetri sdoppiati nelle ombre e sospesi nei vuoti d’aria del campo visivo.
L’inclinazione a modificare la fissità frontale della superficie si avverte nelle “extrapagine” (1974-1982), pieghe aggettanti, calcolate devianze dalle regole formali, effrazioni della griglia geometrica, divergenze e scarti del caso, morfologie rispondenti agli eventi inattesi del reale.
Lo sbilanciamento delle pieghe indica un’apertura non solo alle implicazioni anomale della superficie visiva ma, soprattutto, ai differenti esercizi di lettura richiesti dai forti disequilibri dell’immagine.
Varisco stravolge la frontalità delle pagine, accentua il ritmo delle divergenze strutturali, rende instabile la misura delle superfici, sia nella piccola dimensione delle carte che nelle ampie piegature dei metalli.
Le extrapagine sembrano assorte nel loro gioco ambivalente, nelle qualità strutturali e cromatiche dell’estroflessione, nella seduzione delle torsioni plastiche, allusive alle possibilità espansive della scultura-ambiente.
Non distanti da questa dimensione respirante sono gli “gnomoni” (1975-1982), strutture geometriche spezzate e alterate, una parte dei lati piegata e sollevata dal piano, dinamica alternanza di ombre reali e ombre disegnate, segni di sospensione che gravitano nel respiro della leggerezza.
Varisco è interessata alle implicazioni dello sguardo che fluttua a mezz’aria, alle sue implicazioni negli snodi d’aria, agli effetti senza controllo che intercorrono con meraviglia tra superficie e terza dimensione.
Lo spostamento fisico di chi guarda è sempre più necessario per esplicitare il variare dinamico degli elementi disseminati sulle tavole di legno, libere sequenze che aleggiano nel vuoto come contrappunti e variazioni.
In modo ancor più efficace, nelle istallazioni direttamente a parete, gli gnomoni volteggiano come una danza lieve e divergente che evoca i movimenti del corpo, gli stupori della mente, le intermittenze del visibile, ma soprattutto le sorprese inattese dell’ignoto. Quando le tentazioni plastiche si confrontano con spazi aperti, le articolazioni diventano vere e proprie sculture con angolazioni divaricate e alterne, la visione d’insieme è la somma di andamenti trasversali che svettano sulle ali della geometria.
Questi raccordi tra strutture e ambienti sono sottoposti a ulteriori verifiche nel corso degli anni Novanta, nuove consapevolezze immaginative guidano le molteplici “articolazioni” che Varisco inventa in rapporto alle dimensioni specifiche degli spazi, occasioni per filtrare l’esperienza del mondo fisico riconducendo ogni scelta progettuale al corpo poetico del proprio sentire.
Nella serie degli “Oh!” (1996-2006) entra in scena la forma circolare, piegata e dialogante con l’ambiente, appiattita sul pavimento o inserita negli angoli per captare le intuizioni del vuoto che evoca altri vuoti, soglie potenziali che si amplificano nello stupore dei sensi.
Il ritorno alla frontalità come profondità virtuale si attua nei “silenzi” (2005), spazi vuoti sovrapposti e modificabili nella loro variabile larghezza, lo spettatore può modificare a piacimento l’estensione strutturale delle forme e il conseguente peso primario del colore. Racchiuse su se stesse fino ad annullare ogni vuoto interno, oppure dilatate con differenti aperture per ottenere varie situazioni dentro il susseguirsi dei pieni e dei vuoti.
Dopo aver spezzato la costrizione del modulo geometrico ed esplorato le curvature anomale dello spazio, Varisco ritrova le virtù bidimensionali trasformando l’immagine dei passe-partout in un luogo d’infiniti scorrimenti. A questo si accorda l’elogio del silenzio visivo come muta distanza dal reale, assenza e svuotamento mentale, possibilità di misurare l’interno con l’esterno, e viceversa. Questa bivalenza accompagna l’insieme delle superfici dislocate lungo lo scorrere dei pieni e dei vuoti, attraverso sequenze soggette al loro modificarsi, dunque dettate dall’autore e dagli interventi non prefigurati dello spettatore. A esso è affidato anche il compito di rilevare “risonanze al tocco” (2010), con minima pressione della mano sulle parti incise nella lamina, forme flettenti che oscillano lievi nelle sonorità segrete della luce monocroma.
Con la serie dei “quadri comunicanti” è messa a punto l’idea di “allineamento rettilineo” delle cornici metalliche, sospesa evocazione dello spazio simbolico della pittura, senza mai essere tale. La diversa inclinazione delle forme sempre uguali e sempre differenti è calcolata sui reciproci pesi percettivi, percezione sistematica di equilibri instabili.
I quadri comunicanti sono immaginati all’insegna del “qualunque”, termine scelto da Varisco per indicare i fondamenti attivi della casualità, provvisorietà dello stare in bilico, situazione di fluida incertezza non garantita dall’allineamento rettilineo delle strutture inclinate.
Nel loro elementare sbilanciamento queste opere non hanno nulla di illusorio o ingannevole ma sollecitano una riflessione intorno ai meccanismi intuitivi della percezione, al di là di ogni consueta regola gestaltica.
Del resto, non si comprenderebbe a fondo l’arte di Varisco senza avvertire che le invenzioni spaziali sono vissute come strappi alle regole, salti nel vuoto, modelli di casualità, incanti emotivi, come nell’ultimo ciclo dei “ventilati”, forme variabili appese al filo della memoria.
Si tratta di quello stesso filo mentale che attraversa le opere di questa mostra, percorso predisposto al continuo confronto tra radici filologiche e urgenze del presente: esperienza totale che continua a sorprendere lo sguardo pervaso dal flusso radente dell’ambiguità. La coscienza analitica si abbandona sempre più alle interferenze del caso e alle ragioni del dubbio, alla trasparente incertezza dell’esperienza quotidiana, proprio perché – come scrive poeticamente GraziaVarisco – “il precario è definitivo”.
Francesca Pola - 'Conoscere il tempo nello spazio', Intervista a Grazia Varisco, catalogo della mostra, Fondazione Ghisla art collection, Locarno, 2016
GV=Grazia Varisco
FP: Vorrei iniziare questa conversazione chiedendoti quanto e come lo spazio della Fondazione Ghisla abbia determinato le scelte di questa mostra, in particolare nel tuo lavoro recente che apertamente dialoga con le tue realizzazioni più storiche. Ci sono lavori come ad esempio gli Gnomoni del 1984, che qui costituiscono il fulcro centrale della tua sala personale, ma che sono stati reinterpretati in questa occasione in modo inedito. Sono collocati a pavimento e la loro attivazione dello spazio è fortemente determinata dalla configurazione longitudinale della sala: è come se ci guidassero in un percorso molto chiaro, insieme sottolineando e interpretando le coordinate e traiettorie di percorso del luogo.
GV: Gli Gnomoni sono presenti in questa versione che è storica, originariamente collocata a parete, sulla quale mi piace sempre tornare per trovare nuove configurazioni e possibilità. Ogni situazione può risolversi con proposte diverse, come ad esempio utilizzando anche il loro inserimento in luoghi di connessione e passaggio, come le scale (ad esempio nella mostra che ho fatto nel 2014 alla galleria A arte Invernizzi). Alla Fondazione Ghisla, gli Gnomoni sono collocati a pavimento, al centro della stanza, in modo che vi si possa girare attorno senza interruzione. Continuano ad essere l’elaborazione di qualcosa che ha chiaramente a che fare con l’ombra: lo “gnomone” è l’asta della meridiana, che in sostanza per me significa conoscenza del tempo nello spazio (viene dal greco “gnosis”, che significa appunto conoscenza). Sono impostati su una geometria molto rigorosa: si tratta di un’infilata di forme che sono assolutamente e rigorosamente sempre quadrate. Il quadrato di ferro si ripete, ma viene piegato ora a 90 gradi, ora a 30 gradi, soltanto a metà di un lato e all’angolo opposto. In sostanza, il quadrato viene deviato in modo atipico ma anche con delle leggi molto precise. Geometricamente è tutto rintracciabile, queste coordinate sono ben definite, ma io voglio smentirle, e farle diventare qualcosa di anomalo: il risultato è in effetti sempre una forma un po’ stravagante, che accentua la propria eccentricità nella relazione con la parete, o meglio qui con il pavimento, e più in generale con lo spazio con cui si mette in rapporto. La parte di regolarità rimane solo su un falso piano, cioè sul piano che è assente: la intuisci soltanto per via della profondità di questo perimetro che è stato sollevato.
FP: L’elemento dell’ombra, o comunque di una deroga dalla fisicità attesa della forma, che diventa costruzione anomala di spazio, è presente anche nei tuoi Ventilati: sia quelli in cartone vegetale sia nella nuova versione, concepita appositamente per questa mostra, dei Ventilati rete o Rivelati. Vorresti parlare in particolare di questi ultimi lavori?
GV: Questi nuovi Ventilati rete sono fatti con fogli di una rete molto fine, sia in bianco sia in nero. L’idea è quella di un filo (ideale e fisico insieme) a cui agganciarli, in modo che risultino liberi nello spazio ma guidati da questa linearità regolare di sviluppo. Questo m’interessa molto, che la traiettoria si sottolinei così, non solo nel caso dei Ventilati in cartone vegetale ma anche di questa versione a griglia, ancora più leggera e volatile, perché richiama una idea di allineamento che cerco anche in un altro ciclo in mostra, quello dei Quadri comunicanti. In essi, è la “invenzione” di una sorta di “liquido” che idealmente corre da un elemento all’altro nella parte centrale, ricreando una orizzontalità; invece nei Ventilati e nei Ventilati rete si tratta di una continuità che è nella parte superiore, una linea che idealmente regge reti che vanno più in alto o più in basso, in modo molto più animato. Li chiamo anche Rivelati, perché mi piace giocare con le parole e certamente richiamano veli sovrapposti ma anche un dischiudersi dello spazio. E poi sono in qualche modo una specie di omaggio a François Morellet, al ricorrere dell’elemento reticolare nel suo lavoro.
Mi piace poi che ci sia anche un implicito riferimento all’attività quotidiana, come uno stendere i panni: la vita di ogni giorno è qualcosa che in effetti sollecita delle attenzioni e delle considerazioni che si capisce si muovono perché c’è un occhio che è vigile su queste esperienze, di iterazione, variazione, modificazione. In un esempio banale ma significativo: mentre preparo il risotto alla milanese girando il cucchiaio nella pentola, mi rendo conto che la circolarità del mio movimento, il mio controllo del suo spostamento più o meno regolare, è qualcosa che vedo e che percepisco, e che poi metto in moto anche nelle mie esperienze astratte.
FP: Ci sono in mostra opere che esplicitamente dialogano con questa idea di circolarità: non certo perché ne siano ispirate in modo diretto, ma perché utilizzano il cerchio o la rotazione come archetipo di una possibilità di relazione con lo spazio. Penso ai tuoi Schemi luminosi variabili dei primi anni Sessanta, o ai più recenti gnomoni Oh! sull’angolo. Per quanto cronologicamente distanti di decenni, mi pare siano accomunati da una sorta di dialettica tra ortogonalità della traiettoria e circolarità della forma in movimento, fisico o ideale.
GV: Negli Schemi luminosi variabili lavoravo sulla verifica dello spaziotempo, in relazione al fatto che il fatto di impiegare un motore che determina le configurazioni dell’opera comunque propone una ripetizione dell’immagine. Allora il lavoro dell’ottenere la maggior variabilità dell’immagine è quello proprio di studiare un tipo di reticolo luminoso che consenta un’andatura, un ritmo. Ho visto molte ricerche formalmente analoghe, fatte ancora oggi, ma quello che a me interessa non è tanto il risultato di una forma fissata in immagine, ma è proprio il fatto che la variazione è così messa sotto controllo, c’è sempre questa visione di qualcosa che apre e chiude e che fa sentire una cadenza nel tempo, un ritmo. Così anche in Oh! sull’angolo: ho scelto di titolare quell’opera in questo modo, perché voglio significare lo stupore che mi prende quando penso a una cosa e poi me la vedo lì realizzata nello spazio, quasi improvvisamente, come uscita naturalmente da un pensiero – in due coppie di forme uguali, ma che appaiono diverse perché una lavora sulla rientranza e l’altra sulla sporgenza.
FP: Questo tuo lavoro sulla superficie che diviene traiettoria percorribile, sulla forma che diventa spazio tangibile è una costante del tuo percorso, che già dai primi anni vuole includere attivamente nell’opera il cosiddetto “spettatore”, che a contatto con essa si trova a fare esperienze insieme complesse ed elementari. Si tratta di una delle coordinate più ricorrenti, ma anche più decisivamente rivoluzionarie del tuo lavoro. Per te quanto è importante questo aspetto?
GV: Questa idea per me è cruciale e come giustamente dici è già presente nei miei primi lavori, come le Tavole magnetiche, dove mi piace mettere sotto controllo” il fatto che attraverso una sorta di gioco io elaboro delle esperienze che sono legate alla sensazione di ordine e disordine. In fotografia puoi vederla solo in una versione alla volta, ma quando vi si compone un quadrato di tratti neri, oppure delle forme geometriche che sono più o meno regolari, si capisce che è proprio un modo di lavorare sulla superficie e di interessarla in modo diversificato: sopra e sotto, bianchi e neri. Si tratta da subito di un lavoro sugli opposti che soprattutto, sempre, chiama in causa spazio e tempo. Perché spostandoli impieghi del tempo, lo spazio ne viene interessato e di conseguenza la superficie varia. Così accade anche nei Reticoli frangibili con lo spostamento di chi guarda, sino agli Spazi potenziali, come quelli che sono proprio in collezione Ghisla. In questi lavori la cornice vuota cerca di ri-adattarsi continuamente sulle tavole piene: tu muovi, tocchi, sposti, lavorando su questa superficie con tanti chiodi, sui quali puoi ancorare queste forme geometriche, che sono poi semplicemente la definizione del perimetro intero della tavola, oppure della metà dell’oggetto di supporto.
Poi ci sono le Extra pagine: questa che espongo qui a Locarno mi è particolarmente cara, perché lavora su più fogli ed è una delle prime (e rare) di grande dimensione fatte in carta, che in genere hanno dimensioni appunto più da libro, a meno che non siano realizzate in lamiera, ma con tutta un’altra fisicità e fissità. Invece questa è un’opera che idealmente ancora giri, volti, in cui cerchi di mettere in rapporto le pagine che passano dalla linea al quadrato. Vi è anche qui un gioco di scambio tra le immagini, che sono in parte sottratte, perché è simulata una stampa incompleta, oppure percorse da una interferenza.
FP: In questo lavoro c’è un altro fattore di grande importanza nel tuo intero percorso, che è quella che mi piace definire una controllata casualità. Si tratta credo di una componente fortemente significante di un nuovo modo di vivere e relazionarsi con l’opera in modo continuamente inatteso eppure riconoscibile.
GV: Sì: quello che mi ha sempre interessato è stato proprio vedere che il caso determina sfasamenti e sospensioni che finiscono per diventare familiari. Penso ad esempio ai Silenzi, che sono estensibili, per cui anche qui il tempo e lo spazio si modificano: nonostante che le lastre che li compongono siano uguali, vi sono un’infinità di variazioni possibili nel combinarle. La variazione, più o meno casuale, è proprio quel qualcosa che mette in evidenza il titolo – Silenzi: il silenzio sono le parti vuote che anch’esse si modificano e variano.
È un po’ come vedere un porta-ritratto che però non ha dentro la foto. Nel 1975 avevo fatto un breve lavoro sulle assenze, con alcune opere che avevo chiamato proprio Assenza perché era come se io togliessi dalla parete quel quadro o quell’oggetto che lascia l’alone di polvere e che in un certo senso mi emoziona non come fattore di memoria ma come un’esperienza che cerca di progettare di nuovo. Lì c’è insomma un’immagine sottratta, ma c’è un campo sul quale io invento di intervenire in altro modo. Però intanto è il silenzio quello che mi spinge a lavorarci sopra, a immaginare qualcosa che in parte lo può sostituire, o in parte mi lascia la nostalgia di quello che c’era, oppure la nostalgia di questo stesso silenzio.
Questa dimensione di casualità si ritrova anche nella nuova versione dei Quadri comunicanti che presento in questa mostra, a cui ho aggiunto nel titolo la connotazione JAR, cioè letteralmente “disturbati”. Avevo preparato questi Quadri comunicanti con una superficie specchiante di acciaio lucido, perché mi interessava vedere cosa potesse accadere. Ma ho avuto una sorta di rifiuto a vedere la specularità così violenta: mi vedevo improvvisamente e troppo chiaramente specchiata, allora ho voluto spazzolare e satinare l’acciaio in modo da smorzare l’immagine, e poi soprattutto disturbarla in questo modo con delle punzonature, per evitare che l’osservatore si concentrasse sul proprio riflesso nell’opera. Poi mi sono come resa conto che erano diventati una sorta di omaggio a Lucio Fontana…
FP: Questa tua descrizione mi fa pensare come nel tuo percorso sia costante questa commistione di regolarità di forme e riferimento alla vibrazione di un mondo reale che però è sempre come distillato, filtrato – evocato ma mai illustrato. Un fattore cruciale di questo tuo rapporto con il reale è certamente la tattilità di molte tue opere: in particolare vorrei che dicessi qualcosa sulle Risonanze al tocco, dove l’esperienza fisica si mescola all’evocazione di un’immaterialità aerea e sonora, rendendo a mio avviso particolarmente evidente questo incontro tra concretezza e astrazione, che è così caratteristico del tuo lavoro.
GV: Nelle Risonanze al tocco c’è la voglia di sperimentare proprio attraverso una esperienza fisica il fatto di toccare, di vedere che questa superficie vibra non solo otticamente. Io le chiamo “risonanze”, anche se in effetti possono non suonare per nulla, e anche quando suonano è un rumore di fondo, non una melodia. Però l’idea è proprio di un attendere qualcosa che è in arrivo, che “forse”, che “non lo so”: un mettere in gioco sempre i miei dubbi, che sono un po’ il mio tesoro nascosto. Mi sono messa a elaborare queste cose che ho chiamato Risonanze al tocco perché avevo in studio una locandina della stagione dell’Orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano, con una foto di Igor Stravinskij. In questa foto, il musicista in età avanzata, magari anche con l’udito più debole, tiene la mano sull’orecchio come a cercare di ascoltare, di sentire meglio qualcosa. Mi piaceva molto vederlo attendere, aspettare questo avvenimento di suono: mi pareva una immagine emblematica del mio lavoro, in cui la transitorietà, e anche la precarietà, il momento di fermo, portano a uno stato continuo insieme di sorpresa ma anche di attesa di qualcosa che accade (o non accade). E di cui mi accorgo solo se lo tocco.